Ha incassato cinquanta milioni di dollari negli Stati Uniti (ne è costati poco più di 30) e la metà nel resto del mondo. Soldado, primo film hollywoodiano di Stefano Sollima, riprende il discorso dai personaggi di Sicario di Denis Villeneuve, e li porta a vivere situazioni continuamente al limite, fra tragedia personale ed emergenze politiche. “Non propriamente un sequel”, ci tiene a sottolineare il regista di Suburra, che ha voluto fare un film il più possibile personale, a partire da uno sguardo che definisce “amorale” sulla realtà. I personaggi sono gli stessi, dunque, ma a cambiare sono i principi, la totale disillusione che fa piazza pulita di ogni regola, i meccanismi della vendetta e della rabbia, il calcolo freddo che non pensa alle conseguenze delle azioni e delle missioni. L’agente federale Matt Graver (Josh Brolin) è costretto ad ingaggiare di nuovo l’ex procuratore colombiano Alejandro, divenuto killer spietato dopo che un boss della droga ha sterminato la sua famiglia. Convinti dei propri metodi, antieroi diversissimi per motivazioni e ideali, Matt e Alejandro hanno passati e visioni diversissime, uniti qui solo dalla stessa visione catastrofica della realtà. Ora si ipotizza che i terroristi islamici utilizzino la frontiera con il Messico per entrare negli Stati Uniti, facendosi scudo dei poveri migranti che ogni notte vivono una vera e propria odissea per superare il confine. Ma i numerosi attacchi terroristici hanno come esito l’inasprimento dei controlli e della violenza. Si scatena la guerra tra i cartelli della droga per fermare il traffico di esseri umani e i due uomini al comando si trovano a gestire sentimenti e persone, a vivere derive esistenziali, oltre che fisiche. Il poliziesco che diventa western e viceversa, in un continuo scivolamento tra cinema e verità, la mitologia di un mondo che combatte e la cronaca di una realtà che emerge dal surplus, dall’iperbole di questo stesso racconto. Continuamente a cavallo di un confine rovente e brutale, zona franca per spacciatori, mercenari, contrabbandieri di vite umane e clandestini in cerca di un futuro. A dispetto di tutte le strategie politiche, mosse altrove da fili lunghi e irragionevoli, per ognuno dei personaggi coinvolti il tempo pare essersi fermato, intrappolato in un continuo distruttivo che si ripete e si autoalimenta.
Campi lunghi, dialoghi ridotti all’essenziale, eroi tratteggiati con velocità, misteriosi e dal passato incerto, buoni e cattivi insieme, spregiudicati nel maneggiare i temi caldi del presente, incuranti delle eslposioni di violenza e di follia che provocheranno. Un film politico e grezzo, che inizia in Africa, dove l’agente Graver è impegnato in prima linea contro il terrorismo islamico, e prosegue in un “altro mondo”, apparentemente diverso, eppure ugualmente offeso. E così il gioco delle parti si confonde e i ruoli si scambiano di continuo. Bambini senza innocenza e uomini senza pudore, paradossalmente destinati al crimine per far sopravvivere la loro umanità. Il caos è segno di una scelta formale sapiente, che sa aderire alla materia del racconto e trasformarsi in astrazione e allusione, mentre l’adrenalina e la sospensione si alternano come un meccanismo perfetto, grazie alla musica ossessiva e incalzante dell’islandese Guonadòttir, e all’uso irriverente dei canoni del genere.