Guardare negli occhi il fulcro dell’essere liberi, ovvero la possibilità di scelta e la conseguente necessità di decidere. The Post non è tanto un film sulla libertà (di stampa), quanto sulla possibilità di prendere una decisione, sul diritto di sancire come sacrosanta la propria volontà. Per Steven Spielberg questo è il sommo dramma umano, il più appassionante dei dilemmi dinnanzi al quale la Storia ci può porre, la misura della vera grandezza di una civiltà che si basi sull’umanesimo della libertà. Sul crinale della volontà si collocano le sfide di tutti i suoi eroi, dal David Mann di Duel al giusto Schindler, da Lincoln sino a Kaye Graham, editrice del Washington Post. Decidere di fare la cosa giusta, trovare il coraggio di sfidare il leviatano e incidere sulla sua pelle il marchio della speranza a forgia di sopravvivenza. Prima ancora che un thriller politico sulla pubblicazione da parte del Washington Post dei Pentagon Papers, quello di Spielberg è un dramma civile sul Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, in cui non si sancisce tanto una libertà dei cittadini, quanto un limite alla libertà dello Stato: “Il Congresso non promulgherà leggi che limitino…”.
L’Uomo viene prima della Storia perché è lui che fa la Storia: è quello che abbiamo imparato stando fermi assieme all’avvocato James Donovan sul Ponte delle spie, ed è quello che capiamo guardando questo strano thriller politico, così diverso in fondo dalla tradizione hollywoodiana del genere, così distante dalle tensioni politiche, dalle trame del potere centrale, e così vicino alla coscienza della libertà che sta per strada, tra la gente. Mentre il potere sta altrove, lontano e rabbioso ma impotente, osservato a distanza, di spalle (Nixon un orco che ringhia al telefono, dietro la finestra della Stanza Ovale), il dramma vibra piuttosto – vittorioso, tutto sommato felice, potente, aperto alla consapevolezza, alla speranza – per le strade, sui volti delle ragazze che silenziose guardano ammirate andar via la Graham lungo la scala della Corte Suprema, nella folla che protesta davanti ai palazzi. Gli ingranaggi sono quelli della libertà, che si avviano nei sotterranei del Post, la composizione dei caratteri, la stampa, il vibrare del palazzo sotto i colpi delle rotative che infine stampano.
The Post è un film che scansiona l’atto della decisione come fosse una radiografia dell’esistere e del resistere, trovando tra l’altro lo spirito del (nostro!) tempo nella storia di una donna che dà una spallata alla sua trasparenza, all’invisibilità cui dovrebbe essere condannata per destino sociale. Kaye Graham, che nasce al film nel sussulto di un improvviso risveglio, libera con la sua decisione la società, perché prima di tutto libera se stessa dalle catene del potere: politico, economico e affettivo, le tre leve su cui la soggiacenza della donna storicamente si basa. Di fronte a lei il giornalista, Ben Bradlee, che insegue la verità e materializza nella notizia, nel giornale, l’oggetto di un contendere che si conclude in se stesso, tautologicamente: “L’unico modo per difendere il diritto di pubblicare è pubblicare”, continua a ripetere. Del resto il dramma sta tutto lì, nel rendere pubblica la Verità, nel trovare l’Arca Perduta e riportarla a casa: due scatole di cartone che viaggiano in prima classe accanto al giornalista. O magari il Soldato Ryan da tirare fuori dal fango del fronte: quello della WW II, tanto quanto quello vietnamita. Perché è proprio nell’incipit scritto tra i soldati che combattono in Vietnam che Spielberg trova la ragione, l’inizio e la fine, del dramma civile e politico che si gioca nella redazione del Washington Post. È li che si scrive la Verità, sui fogli scritti a macchina sul fronte, subito dopo la battaglia, dall’osservatore governativo che sarà la futura talpa, tanto quanto sui segni di mimetizzazione incisi sui volti dei soldati prima di andare a combattere… Perché per Spielberg The Post non è tanto il dramma della pubblicazione di una notizia, quanto quello della rivelazione della Verità.