McDonald’s come lo conosciamo oggi non è un’intuizione di prima mano. La nascita dell’ impero del fast food che ha conquistato il mondo con i suoi hamburger è il risultato di uno scontro tra due sogni americani. John Lee Hancock, autore di oraziana medietà ad oggi priva di acuti (meglio quando scrive sceneggiature: su tutte, quelle di Un mondo perfetto e Mezzanotte nel giardino del bene e del male per Clint Eastwood), va alle fonti del fenomeno e ne estrae una storia che dell’american dream costituisce una curiosa variabile. Tra i contendenti in campo, alla fine, vince infatti quello che persegue l’obbiettivo con più determinazione, non il migliore: non una peculiarità assoluta, perché la cosa si verifica di continuo e il cinema (americano, ma non solo) lo ha raccontato spesso. Meno frequente invece l’atteggiamento del regista, che nel mettere a fuoco la vicenda di Ray Kroc opposto ai fratelli Dick e Mac McDonald, mostra simpatia per entrambe le fazioni, che pure vanno in direzioni opposte. Confermando di amare più la composizione che la contrapposizione, anche a costo di indulgere al sentimentale e di sacrificare la ricostruzione storica alle esigenze narrative, come già sperimentato in quel bel (frammento di) biopic che era Saving Mr. Banks (2013) sulla ventennale trattativa per i diritti cinematografici di Mary Poppins tra Walt Disney e la scrittrice Pamela Lyndon Travers.
Nei primi anni Cinquanta, Kroc è un venditore di mezza età, che piazza frullatori senza troppa fortuna, e che pure resta strenuamente attaccato all’idea di un futuro diverso. Incuriosito da un ordine apparentemente inspiegabile, viaggia dall’Illinois a San Bernardino, vicino a Los Angeles, per trovarsi di fronte a un’attività che ha del portentoso: una piccola catena di montaggio alimentare che sforna a getto continuo hamburger per il consumo immediato, opera di due fratelli con il pallino per la cura maniacale del dettaglio. La genialità del “sistema espresso” messo a punto dai McDonald preserva la qualità e la genuinità del cibo, almeno secondo gli standard USA, che non sono (mai stati) da gourmet. A Kroc la cosa sta bene solo per convenienza, la sua voglia di affermarsi prescinde dal prodotto che commercializza; mentre per i McDonald la soddisfazione personale è conseguenza diretta di quella dei clienti. Presi per stanchezza, i fratelli accettano infine le idee espansionistiche di Kroc, che pure, in principio, deve abbozzare, perchè non ha il controllo diretto del franchising. Simile al cuculo che si mimetizza nel nido di altri uccelli e prospera a loro spese, prima di volare verso nuove mete, Kroc riesce ad appropriarsi del logo, quindi della produzione e infine del nome (la cosa a cui più tiene). Il distacco dai McDonald – liquidati con una cifra significativa, ma imbrogliati in ordine ai dividendi dell’azienda, pattuiti con una semplice stretta di mano “tra galantuomini” – libera Kroc dall’obbligo di rispettare l’equilibrio tra qualità e profitto e lo porta anche a disfarsi del fardello costituito da una moglie (Laura Dern, dimessa come non mai) che si rivela non all’altezza delle sue rinnovate aspettative. Non è certo un capolavoro,The Founder, ma non delude rispetto a ciò che promette. Per ambientazione e la fotografia luccicante ricorda un po’ il Tucker di Coppola, che tuttavia era uno straordinario (e nostalgico) apologo sul fallimento di un sogno, non sulla sua realizzazione: il personaggio del self made-man là interpretato da Jeff Bridges si avvicina semmai più ai McDonald (in passato proprietari di un cinema florido, poi “soffocato” dalla concorrenza, essi avevano già sperimentato sulla loro pelle ingenua le difficoltà dei “piccoli” in un mondo di giganti) che non al rapace Kroc. Hancock, diligente nella ricostruzione d’epoca, ha il merito di stare molto addosso ai personaggi, lasciando che siano gli attori a emergere: il film lo fanno loro, dentro una cornice che raramente si allarga oltre i confini rappresentati dai locali via via aperti da “the founder” (come appare sul biglietto da visita con cui si presenta), mentre il business si trasferisce gradualmente dalla ristorazione all’immobiliare, facendo di Kroc un magnate.
Michael Keaton accentua i tratti volgari del protagonista con una recitazione alla Nicholson, vagamente spiritata, in cui lo sguardo si accende a intermittenza di riflessi luciferini e ne lascia intuire le intenzioni più delle parole; Nick Offerman e John Carrol Lynch, consanguinei che si muovono sempre in coppia, diversi ma complementari, sono perfetti nel rendere con pochi significativi tratti ed efficace mimica facciale lo sgomento di chi assiste all’ascesa del nuovo arrivato con atteggiamento fatalista da tragedia greca. I sogni dei McDonald erano migliori, se valutati con il metro dell’etica e della qualità offerta al cliente, ma non abbastanza grandi per un Paese che non ama le vie di mezzo. E infatti non hanno spiccato il volo, le ali tarpate dal cuculo. The Founder narra in parallelo l’ascesa e la sconfitta; esplicitazione di un successo che, come (quasi) sempre nelle storie americane è in chiaroscuro. Conseguenza diretta, oggi, del successo di Kroc sono gli oltre 35mila punti vendita nel mondo di un prodotto che tendiamo ormai a identificare come il cibo americano per eccellenza; anche se, per contrappasso, alla conquista dei mercati esteri da parte di McDonald’s è corrisposta una diffusione di tradizioni culinarie di ben altro valore (italiana, giapponese, francese, cinese, perfino messicana e indiana) negli States. Con risultati certamente più apprezzabili per il palato.