All’inizio siamo in un teatro, o una sala di prova. Una donna allo specchio si trucca, poi si gira, guarda in macchina e dice: “non vi dirò il mio nome. Ho 33 anni. Da qualche anno io e mio marito stiamo attraversando una crisi coniugale eppure abbiamo una bambina di 4 anni. Ho conosciuto Philip un anno e mezzo fa. Lui è uno scrittore americano che vive a Londra…”. Si inizia dalle parole, dunque. Da un racconto schietto e serrato per non lasciare dubbi. Poco dopo Philip e questa donna sono insieme, ma i muri sono arancioni e scrostati, il pavimento sembra quello di un garage. “Chiudi gli occhi” le dice lui. “Vediamo se hai spirito di osservazione. Descrivi la stanza” e la stanza diventa quella dello studio inglese di Philip Roth, con le pareti azzurre, le finestre bianche e sugli scaffali libri “di scrittori ebrei, sugli ebrei, per gli ebrei”. Un inizio folgorante quello di Tromperie, penultima fatica di Arnaud Desplechin (a Cannes è stato presentato il suo nuovo lavoro Frère et Sœur) che ha accettato (e vinto) la sfida di portare sul grande schermo il romanzo Inganno di Roth. Il risultato è un esercizio raffinatissimo di narrazione, perché le parole prendono il sopravvento e investono le immagini, le rendono tridimensionali e forti, capaci di trasformare, inventare, descrivere… Al centro, i pomeriggi intensi vissuti dallo scrittore e dalla sua amante, chiusi in quello studio al piano terra, che si fa scrigno di segreti e di assoluta libertà, mentre il racconto via via si infiamma, si fa intimo, urgente, doloroso. Un attento lavoro di sovrapposizione tra Desplechin e Roth e tra la dimensione letteraria e la realtà, re-inventata e rimodellata all’infinto in un continuo gioco che alimenta il reale e lo tradisce al tempo stesso.
Siamo nel 1987 e l’amante inglese dello scrittore, ormai già molto famoso, dà libero sfogo ai racconti del suo matrimonio disastroso, del marito che la tradisce regolarmente, ma anche di letteratura, di vita e di morte, d’amore e solitudine. E nelle pause, secondo una scansione in capitoli, si insinuano i ricordi dell’uomo, i suoi viaggi in Cecoslovacchia, il tradimento dell’amico regista, l’ossessione spionistica di quei paesi, la fuga di Yana, l’amante di allora, da Praga a Londra, e poi le conversazioni con l’amica americana Rosalie malata di cancro, il viaggio a New York e la moglie che ha scoperto la sua infedeltà. Sempre che sul taccuino, questo scrittore ossessionato dalle parole (“Io sono un audiofilo, io sono un feticista della parola”), appunti momenti di vita e non pure fantasie da tradurre in libri (posto che ci sia una differenza). E poi il processo che Roth subì con l’accusa di sessismo, misoginia, diffamazione, adescamento e crudele seduzione delle donne, che si trasfoma agli occhi di Desplechin in uno spettacolo surreale, una farsa sopra le righe per confondere i piani e le idee. Tutto d’un fiato, tra confessioni e infinite domande senza risposta, corse sotto la pioggia incessante di Londra e telefonate, con una Léa Seydoux in stato di grazia, capace di cambiare registro in un attimo e mantenere il controllo su quest’uomo fragile, egocentrico e affamato di storie, dove nessun personaggio si trova al suo posto. “Né gli esiliati ciechi, né l’amante inglese prigioniera di un matrimonio sinistro, né Rosalie nel suo ospedale… L’unico che abbia trovato il suo, è lo scrittore, nel suo studio, quando scrive o quando ascolta… Ma questo posto ha un prezzo: la solitudine e una forma di austerità”, spiega Despliechin.