Un labirintico caos: Aragoste a Manhattan di Alonso Ruizpalacios

Aragoste a Manhattan del messicano Alonso Ruizpalacios arriva in sala dopo il passaggio in Concorso alla Berlinale 2024 e l’esordio italiano lo scorso marzo al Festival del cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano. Per chi frequenta le cinematografie più lontane il nome del regista è legato soprattutto a Gueros, il suo esordio nel lungometraggio del 2014, la storia di una odissea di due fratelli nella metropoli messicana alla ricerca di un padre putativo musicista. Sono venuti altri film dopo che hanno man mano definito l’autorialità inquieta di Ruizpalcios e questo ultimo lavoro, straordinariamente corale, ma al tempo stesso intimo e personale, girato in un bianco e nero ovattato che sembra comprimere la storia e i suoi protagonisti su un palcoscenico, piuttosto che nell’arioso en plein air di un set cinematografico, arriva a destinazione con il suo carico di emozioni, di rivendicazioni, di immaginazione e di grande solitudine dei personaggi. Una mattina nella New York di Times Square arriva da un Messico profondo Estella, una ragazza non ancora maggiorenne. Lei sa che deve andare a trovare Pedro (Raúl Briones) che lavora in un ristorante dove spera di essere assunta.

 

 
Per una coincidenza Estella è assunta e la sua postazione è accanto a quella di Pedro. Insieme ad Estella conosciamo l’ambiente di questo grande ristorante. La gran parte dei cuochi e delle maestranze sono immigrati. Si respira un’aria difficile a volte di mal vissuta tolleranza, piccoli e grandi rancori legano malamente gli immigrati ai pochi dipendenti americani che lavorano nel ristorante. Pedro è innamorato di Julia (Rooney Mara), che lavora come cameriera nel ristorante. La loro è una storia seria e focosa. Lei è incinta e vuole liberarsi del bambino, Pedro dice ai suoi genitori che li ha resi nonni. Dalla cassa del ristorante sono spariti 823 dollari. Tra i sospettati Pedro. Le tensioni nell’universo gastronomico di questa cucina infernale si acuiscono. Aragoste a Manhattan (La cocina in originale) è un lungo sguardo gettato dentro un universo imperfetto, dentro una sineddoche di una metropoli, di un Paese intero, di un mondo che sta sempre sull’orlo di una crisi di nervi. È per questa ragione che la scelta di cambiare il titolo nel più accattivante (forse) Aragoste a Manhattan non solo tradisce il senso generale del film, ammiccando ad una commedia piacevole e ricca di spunti brillanti, ma soprattutto tradisce il suo spirito drammaticamente attuale che si radica nella congerie di lingue ed etnie, di tradizioni e modi di essere che una città-mondo come New York accoglie, divenendo simbolo di una più generale irrequietezza e mal tolleranza non solo tra autoctoni e immigrati, ma anche all’interno della vasta platea degli immigrati provenienti da diverse culture e differenti latitudini. Aragoste a Manhattan – il cui titolo prende le mosse da uno dei tanti episodi che accadono durante lo scorrere della storia – non è dunque un pacifico film nel quale il tema della cucina diventa conciliante forma di dialogo tra le parti. E’ invece un film tutt’altro che pacificatorio, tutt’altro che accomodante, che mette in scena, con una esplosione finale, un disagio che è generazionale, perché generazionale è l’emigrazione. Ecco perché si preferisce pensare al film con il suo titolo originale di La cocina.

 

 
Quel titolo sembra universalizzare i fatti antecedenti, i personaggi e gli eventi che si sviluppano.Ruizpalacios affina le proprie arti e da Gueros mutua il bianco e nero trasformandolo in strumento necessario per un ulteriore intervento nella messa in scena. Al di là di ogni estetismo – il film in verità spinge verso questa direzione – il bianco e nero, privo di ogni enfasi conferisce alla storia un’aura ovattata che esalta la forza evocativa del luogo. Ruizpalacios domina il suo film dalla struttura formale complessa e articolata tra piani sequenza e una straordinaria mobilità della macchina da presa dentro il labirinto del ristorante. Aragoste a Manhattan diventa così un film dalle forme tentacolari che in una fame di racconto intende abbracciare più temi, più personaggi in una contemporaneità frenetica e in una razionalità altrettanto e, in diametrale opposizione, del tutto composta. Ne nasce un cinema dove il racconto sembra quello del caos, ma dentro il quale si vedono ordinati, come in fila perfetta sugli scaffali, una serie di temi che spingono al conflitto. Ruizpalacios guarda il caos e lo analizza con la sua macchina da presa mai ferma, vicina, vicinissima ai soggetti e agli oggetti del suo racconto. In una frenesia (s)composta Aragoste a Manhattan racconta ancora una volta un pezzo di questa contemporaneità confusa e frammentata e ci fa immaginare in un finale quasi inatteso, che ricorda Jules Verne, che forse un mondo migliore esiste e non solo nei desideri.