Una commedia liquida: Romeo è Giulietta di Giovanni Veronesi

Va dato atto a Giovanni Veronesi di avere nel proprio percorso artistico sempre lavorato con l’eleganza di un attento conoscitore della commedia e di avere saputo creare attorno a sé un gruppo di fidati amici che costituiscono valore aggiunto al lavoro di regia e al film nel suo arrivo in sala. Quest’ultimo Romeo è Giulietta, invece, divagazione semiseria sulle questioni di genere, sembra costituire un salto di qualità, non tanto per il tema, quanto per il suo impianto, per il cast che tradisce il senso di clan amicale e per la capacità di fare coincidere il racconto shakespeariano, denunciandone al contempo l’attualità, con una storia di ordinaria teatralità. Al centro della vicenda la giovane attrice Vittoria (Pilar Fogliati) che non trova lavoro per avere in passato plagiato un monologo senza dichiararne l’origine. Il suo nome sembra bandito dal circuito. Per farsi scritturare dal mitico, ma in declino, Federico Landi Porrini (Sergio Castellitto) che sta mettendo in scena un Romeo e Giulietta destinato al Festival di Spoleto, mette in piedi uno stratagemma. Il gioco riesce e lo scontroso, irridente e antipatico regista sarà piegato dalla forza degli eventi e dalla sorpresa che Vittoria gli riserverà proprio in occasione della prima della piece. Ma nel frattempo la storia d’amore con Rocco (Domenico Diele), attore a mezzo servizio e occasionalmente anche Mercuzio nella tragedia messa in scena, sembra andare a farsi benedire, ma anche qui non tutto è detto in un gioco di specchi atteso, ma sempre magicamente sorprendente.

 

 

Veronesi si diverte a giocare con la sovrapposizione tra teatro, cinema e realtà e sa trasferire la stessa verve della commedia – in fondo una commedia degli equivoci, dotata di una sua leggerezza quasi wilderiana o alla Blake Edwards, nella sua ispirazione forse all’inarrivabile Victor Victoria – nelle tre situazioni di cui si è detto. Castellitto, il Lando Porrini omosessuale e insopportabile, pieno di sé e consapevole di una sua vena esaurita, conoscitore del teatro ma anche spietato nei rapporti umani e d’amore, si prende la scena e la pervade di sé. Troppo? Forse, ma sa essere divertente e piacevolmente odioso. Si tratta forse del film più strutturato di Veronesi, che sa utilizzare i canoni classici del travestimento e della maschera come sintomi di una liquidità di genere, come una ideale sovrapposizione non solo tra vero e falso, ma dentro i ruoli tipici di coppia. Una sovrapposizione che nella rappresentazione diventa copia conforme del reale e del quotidiano. Nei due piani narrativi, costituiti dalla messa in scena teatrale e dalla vicenda amorosa e non che si svolge tra i personaggi al di fuori del palcoscenico, si viene a creare nella fluidità dei piani uno scambio proficuo che attualizza i temi del teatro classico, in questo caso di quell’antagonismo tra Montecchi e Capuleti, e al tempo stesso si smorza ogni ideale ruolo di genere spegnendo l’antagonismo femminile/maschile che domina il rapporto d’amore.

 

 

Diventando questo il tema centrale del film si conferma che la commedia, eterno genere ibrido e caratterizzato da una sua anarchia genetica, per la mutevolezza delle forme che può assumere e per la profonda verità che quando è buona sa fare emergere, è cosa non semplice e non banale. È per questo che va riconosciuta al film una sua insolita efficacia, ma soprattutto quel senso di libertà da ogni vincolo che il genere al quale si appartiene impone. Giulietta è Romeo è forse davvero una commedia che traduce la consacrata liquidità dei nostri tempi, la sana confusione di genere che corre parallela con le resistenze che da più parti si manifestano. Anche a questo serve la commedia: a lanciare segnali, a permeare di sé il pubblico che prima poi dovrà uscire dal sogno del cinema e tornare meditante alla propria quotidianità.