Progressivi spostamenti del rancore, un po’ come sottrarre terreno al mito della Frontiera in cui questa volta si spinge: con The Sisters Brothers (Venezia 75), Jacques Audiard sembra quasi voler dissolvere quel grumo di materia oscura che il suo cinema si porta dentro da sempre, quella brumosa disposizione alla rabbia dei sentimenti in cui i suoi personaggi si incidono. Il gioco dei generi cui è abituato, che scaturisce da una certa sensibilità noir insediata negli smarginamenti delle periferie contemporanee, questa volta punta lo sguardo sul modello western in transito tra il mito della terra selvaggia e la consapevolezza della civiltà incipiente, incarnato nel doppio corpo dei due protagonisti: Charlie Sisters (l’irruente dolcezza di Joaquin Phoenix) ha il grilletto facile e le maniere spicce dei pistoleri, suo fratello maggiore Eli (la possente docilità di John C. Reilly) è invece lo spirito nobile della coppia, quello che osserva il progresso arrivare, si dispone a capirlo, cerca una soluzione.
A ben pensarci è un po’ il gioco classico del cinema di Audiard, il dissidio interiore tra istinto e ragioni, tra motivazioni implicite, magari anche irrazionali, dell’animo e funzioni della ragione, elaborazioni relazionali, istinto affettivo. I fratelli Sisters sono al servizio del Commodoro, il solito notabile prepotente che vuole tutto e subito e li usa per sbarazzarsi dei problemi. Nel caso specifico li ha messi sulle tracce di un chimico che ha la formula segreta per trovare l’oro. Li precede John Morris, un detective che ha i modi di Jake Gyllenhaal e che però si lascia sedurre dall’utopia coltivata dal chimico: raccogliere l’oro e fondare una comunità ideale di illuminati, in cui regni fratellanza e progresso… Audiard ovviamente insiste sugli elementi fondativi del dissidio, le ragioni opposte dell’avidità e della condivisione, della rabbia e della comunione. E poiché la tentazione di stare non solamente meglio ma addirittura bene è sempre quella che fa muovere i suoi personaggi, lascia che i Sisters Brothers siano coinvolti nell’utopia. L’istinto genera coinvolgimento e il film ha una docilità piuttosto inedita per il cinema del regista: si empatizza coi personaggi lavorando più sulle ossa che sulla ruggine, ovvero più sulla loro strutturazione che sulla corrosione cui sono fatalmente soggetti. E’ un western caldo, walshiano, che stempera i colori dei caratteri nell’impasto dello sfondo con una certa uniformità, puntando sui momenti e movimenti di sceneggiatura, illustrando le situazioni. Un Audiard inatteso e bello da accogliere.