Un uomo e una donna: il presupposto è di quelli noti, ma lo svolgimento riserva più di una sorpresa. Soprattutto per come riesce a suscitare una certa idea di tenerezza attraverso situazioni che propendono per derive di segno decisamente opposto. Alla base c’è una sorta di necessità sociale che muove le “bestie rare” del film, ovvero i due fidanzati Mandy e Pete. Lui dichiara di detestare le donne, ma di cercarle perché non è possibile farne a meno. Lei è meno sfumata nei suoi intenti, è diventata madre all’insaputa di un uomo con cui ha avuto un rapporto occasionale ed è alla perenne ricerca di un rapporto che le dia stabilità. Senza troppe perifrasi il loro primo incontro è un disastro e questo li stimola ovviamente ad andare avanti. Mandy è interpretata da Billie Piper, che porta in dote il fatto di essere un corpo esposto (come nella spassosa scena in cui si spoglia per la prima volta davanti a Pete) da parecchio tempo: è infatti un’ex cantante pop, con un singolo (( Because We Want To) che nella seconda metà degli anni Novanta l’aveva resa la più giovane artista a raggiungere il primo posto della classifica inglese per i singoli. E che forse oggi il pubblico conoscerà più per le apparizioni televisive in serie come Doctor Who o Penny Dreadful. Qui rovescia in un certo qual modo quell’immagine vincente, mettendo a nudo le sue debolezze, attraverso un rapporto incidentato e costellato da continue deviazioni ora nel grottesco, ora nell’assurdo, sempre in bilico fra l’affetto sincero e la voglia di mandarsi al diavolo.
Allo stesso modo, Rare Beasts (a Venezia 76 per la Settimana Internazionale della Critica) rappresenta in un certo qual modo una sorta di sabotaggio della classica rom com, anche quella più nevrotica: per come sottopone la tensione narrativa a continue pause e ripartenze, lavorando sulle situazioni con esiti imprevedibili. E perché, mentre sembra abbracciare convintamente una direzione, in realtà suscita sensazioni opposte. Anche per questo è un film in grado di sprigionare un’enorme tenerezza mentre mostra due protagonisti preda di nevrosi e che si abbandonano a litigi dal sapore tutt’altro che liberatorio. È in un certo qual modo il ritratto di due corpi attoriali di grande forza espressiva: quello della Piper, appunto, ma anche l’altro di Leo Bill. Tanto l’una è “piena” nelle sue manifestazioni e nell’impeto sincero con cui sembra dedicarsi a quel rapporto sgangherato, tanto l’altro è “vuoto”, asciutto, sfuggente, irritante nella sua brutale sincerità. Il sovvertimento delle certezze è in fondo esaltato dal contesto: una società in un certo qual modo ammalata di altruismo di facciata, ma in realtà ripiegata sulle proprie nevrosi, dove la gente cammina per strada ripetendo mantra autoassolutori per incentivarsi a insistere nella direzione già tracciata. Un mondo in un certo qual modo codificato dalla propria ossessività e che il ritratto brutale ma sincero dei due innamorati disfunzionali mette in scacco, permettendo alla dolcezza di farsi strada attraverso il male. Nonostante il male. O forse proprio grazie a esso.