Venezia81 – La sinfonia farsesca della rivoluzione in The New Year that Never Came di Bogdan Mureşanu

Disorientati e spaventati, i protagonisti del primo lungometraggio del regista rumeno Bogdan Mureşanu, presentato in Orizzonti a Venezia81 dove si è aggiudicato il premio come Miglior film, non possono pensare al passato e tantomeno al futuro. Sono in gabbia, prigionieri di un avvenire cupo e di un passato travagliato che lascia senza fiato. Sopravvivono senza farsi notare, esporsi con una maschera per evitare sguardi indiscreti, per loro non c’è alternativa che scomparire nel presente scivoloso e inconsistente in cui regna un caos ordinato che penetra nelle ossa come il freddo dell’inverno. E il presente inquadrato da Mureşanu, palcoscenico in cui si sovrappongono tensioni e contraddizioni, è quello del 20 dicembre 1989, quando la Romania era inquieta per le voci su scontri tra civili e autorità che avevano causato molte vittime nella città di Timişoara solo pochi giorni prima, con il paese al collasso e prossimo alla rivoluzione nonostante gli spettacoli di capodanno glorifichino Ceaușescu. È uno scenario storico che dall’universale si sposta al particolare oscillando di continuo tra un prima e un dopo, tra il disagio di chi vive senza riscaldamento quello di chi è alle prese con conflitti personali e l’onnipresente polizia segreta. Un presente che agisce come filtro per comprendere quello della contemporaneità, non privo di derive e fatiche nonostante le promesse di dignità e libertà, espressione di una narrazione civile che comprime le suggestioni raccolte dal cinema rumeno degli ultimi vent’anni grazie ad illustri esponenti come Mungiu, Netzer, Porombuiu, Puiu, Jude, Muntean o quel Bogdan Apetri che con Miracle – Storia di destini incrociati denunciava il tramonto dei sogni rivoluzionari. Un film sul vedere, inteso come esperienza che racconta di un modo, prima che di un mondo. Sulla fine, intesa come tragica consapevolezza, prima che conclusione inevitabile.

 


 
Eppure, in questo film intelligente e divertente, che ricostruisce il tempo, la vita c’è. Ribolle dentro corpi che non stanno a guardare impassibili, tutti parte di un intero che freme. The New Year that Never Came racconta le vicende di donne e uomini che s’intersecano inaspettatamente mentre il mondo va a rotoli e culmina nella drammatica caduta di Ceaușescu e del regime comunista. Farsa tragicomica sul controllo e la manipolazione, è un film di immagini sovrapposte, artefatte, finte che esplorano la dimensione del cambiamento reale assumendo un ruolo centrale e paradigmatico per la rivoluzione rumena che è stata forse, se non la prima, la rivoluzione con la maggiore copertura televisiva della storia. Mureşanu prende spunto dal suo cortometraggio The Christmas gift (2028), aggiunge altre cinque storie che si sviluppano nell’arco di 24 ore e alterna con equilibrio e ritmo incalzante le vicende personali di donne e uomini sull’orlo di una crisi di nervi, al cospetto di una realtà dura ma mutevole, ambigua e filtrata dalla finzione, per questo difficile da interpretare e accettare. L’attrice che deve scendere a patti con le istituzioni di controllo mediatico, il padre di famiglia che rincorre una lettera potenzialmente esplosiva, la madre che non vuole separarsi dalla propria casa, i giovani alle prese con la fuga e la speranza di un mondo migliore, il figlio deluso e smarrito, i genitori sommersi dai compromessi: la prospettiva microscopica delle persone comuni è così ripresa con uno sguardo dall’alto verso il basso che fa emergere un vissuto magmatico volto a ricreare il momento esatto in cui il cambiamento si è verificato senza che lo si notasse mentre la coscienza civile e lo sguardo maturavano espandendosi e dirigendosi altrove.

 

 
L’assurdo e il tragico si abbracciano così in una polifonia che trascende verso orizzonti angoscianti, indagando le dinamiche di quel rapporto ossessivo con il potere e scardinando la struttura tradizionale di una trama in cui Cinema e Storia, finzione e realtà, si uniscono in tutta la loro complessità. L’alienazione dell’uomo del tempo, la sua crisi, la solitudine, l’impossibilità di ogni comunicazione espressa attraverso situazioni e dialoghi al limite del surreale riflettono una quotidianità che viene distrutta, agitata o scomposta per creare un effetto straniante dove si percepisce lo spettro del fallimento dell’uomo in tutta la sua concretezza. Con il suo epilogo drammatico, così incline a restituire le immagini d’archivio della rivoluzione, il film sembra domandarsi quanto e come sia possibile vivere un presente felice, liberandosi da un passato non pienamente concluso, senza logorarsi attendendo un futuro del tutto incerto.