Natura, tu divori te stessa per rinascere ancora.
Madre di tutto, da te tutto si eleva.
Un sogno, qualcosa di grande che oltrepassa l’essere umano. Una sinfonia ancestrale che celebra Madre Terra, forza generatrice di bellezza e di vita che consegna all’uomo la portata di un mistero inestinguibile di domande e realtà. Un viaggio nella coscienza, nelle profondità del senso dell’essere attraverso il senso metafisico delle immagini. Voyage of Time – Il cammino della vita, film del 2016 presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, amplifica tutto questo trasformandosi in un film-saggio di sorprendente fascinazione che espande all’estremo l’idea filosofica e cosmologica che ha sempre modellato il cinema di Malick. Un film religioso? In parte sì ma prima ancora di essere guardato come documentario di una realtà, depositario di una verità, il film offre allo spettatore la possibilità di vivere un’esperienza immersiva a stretto contatto con quella che potrebbe essere definita una storia per immagini dell’universo.
Il cuore della vicenda (pur riconoscendo un principio e una fine, il film non è interessato a misurare il tempo) è costituito intorno all’origine della ricerca, domanda di senso sulla forza che tutto permette. Mescolando immagini a volte documentarie, a volte artefatte, ricostruite con gli effetti speciali di Dan Glass che tendono ad avvicinare macrocosmi e microcosmi, a ridurre le distanze tra mondi apparentemente incomunicabili e inconciliabili, il film s’interroga sul senso del limite e del tutto guidato dalla voce di Cate Blanchett (ma c’è anche un’altra versione, in altro formato, doppiata da Brad Pitt, che produce). L’opera di Malick è dunque interessata a guardare la relazione che sussiste tra le domande dell’uomo e le risposte che il cosmo offre, riconoscendo un limite invalicabile che riflette un’immensità e un’impossibilità da rendere concrete e oggettivabili. Da questo punto di vista risulta interessante notare come il vero limite del film coincida proprio con la sua vocazione a riflettere sul senso del tutto attraverso l’immagine: come si può immaginare ciò che non si può dimostrare? Malick sembra rispondere, d’accordo: non si può fotografare neanche l’esistenza dell’amore, della speranza, del coraggio e della nobiltà d’animo, perché si sottraggono all’osservazione scientifica e al sillogismo, ma non alla fede, che spesso aiuta a vedere le cose in maniera molto più profonda. D’altra parte una fede che non è pronta a esporsi alla scienza corre il rischio di degenerare in superstizione. Ma una scienza che crede di potersela cavare benissimo senza la fede è sulla buona strada per diventare assoluta e megalomane e questo è ben chiaro al regista. In controluce, il film di Malick consegna così allo spettatore una convinzione fondata su un dubbio: sembra che le cose più grandi e più belle della vita non si pieghino necessariamente alla razionalità. Un monito intrigante per l’uomo contemporaneo ma del tutto sconnesso dalle logiche mondane e quindi sicuramente scomodo. Come, del resto, è da sempre il cinema di Malick.
Ciò che convince meno in questa operazione dalla vocazione stupefacente, tesa quindi a scatenare stupore nello spettatore, prima ancora del suo essere estetizzante o manieristica, è la totale assenza della prospettiva stereoscopica, è l’idea di fondo che nega, estromettendo le immagini, ogni forma di conflittualità e dialogo. Non è forse vero che la visione spaziale è possibile soltanto grazie alla divergenza? Che fine ha fatto il Tu? Altrimenti, senza questo passaggio, che senso avrebbe l’espressione «l’amore ci unisce« utilizzata da Malick verso la fine del film? Il vero dialogo si instaura solo nel momento in cui, esprimendomi, non mi rivolgo semplicemente a un altro, ma discuto con lui di qualcosa. Questo ha molto a che fare con l’amore e con la direzione dello sguardo che per generare deve rimanere aperto. Riprendendo Saint-Exupéry, Viktor Frankl scriveva che «in amore la direzione degli sguardi diventa parallela, entrambi vanno all’infinito e come delle parallele si incontrano all’infinito. In breve potremmo dire che coloro che si amano davvero non si limitano a guardarsi l’un l’altro negli occhi per ore, ma entrambi rivolgono uno sguardo parallelo all’infinito, pregano insieme. L’amore è pregare insieme, una preghiera a due». Questo nel film di Malick è assente e lascia lo spettatore in balia del dubbio che tutto possa ridursi a seduzioni autoreferenziali.