

Il tutto culminerà con le narrazioni rock di Patti Smith, ma prima ci sarà spazio per i concerti degli Editors e di Liam Gallagher, mentre l’apertura è stata proprio all’insegna di Woodstock, rievocato attraverso una tripletta cinematografica: partendo ovviamente dal quasi instant-movie firmato nel 1970 da Michael Wadleigh, Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, rockumentary archetipale che fissò quei giorni a caldo, seguito dalla visione in scansione generazionale messa a punto da Barbara Kopple nel 2000 con My generation – Woodstock 1969, 1994, 1999 e sigillato nell’anteprima del nuovissimo Woodstock – Three days that defined a generation di Barak Goodman, in uscita in questi giorni a New York e Los Angeles e presentato al Medimex in prima internazionale. Grande narratore dell’America di ieri e di oggi, Goodman è l’autore di documentari che hanno lasciato il segno (Scottsboro, su un processo farsa contro un gruppo di neri, la ricostruzione della tragedia di Oklahoma City e poi American Experience, la serie su eventi controversi del passato statunitense). Il suo approccio a Woodstock non può che essere mediato da una tensione rievocativa che si spinge nelle vene dell’evento. Non è tanto la musica ad essere il suo obiettivo, il palco resta più che altro la scena che si apre dinnanzi alla marea di giovani che si univano in un corpo solo: la narrazione verte soprattutto sul raffronto tra l’ipotesi di un evento che mirava ad essere un agglomerato sonoro e musicale e la realtà di un fenomeno che assunse dimensioni globali prima ancora che questo termine giungesse nel nostro dizionario per assumere la connotazione spersonalizzante che oggi conosciamo. La ricostruzione operata da Barak Goodman lavora infatti proprio sulla germinazione identitaria generazionale che si attuò sotto il palco di Woodstock: centinaia di migliaia di persone che seppero stare insieme pacificamente e in maniera solidale. È il miracolo di una coralità che ebbe la meglio sulla massa, in un processo di liberazione dei corpi e delle anime che andava al di là della socialità musicale cercata in principio e si trasformava in un messaggio
univoco e unisono. La ricostruzione passa attraverso il repertorio, in parte pressoché inedito e comunque poco visto, ma ciò che conduce il gioco sono le voci di testimoni d’epoca: non sono tanto gli autori dell’evento, le star, quanto giovani di allora che si trovarono a vivere quell’esperienza e che oggi la ricordano. Voci fuori campo che non disturbano col senno di poi la potenza rievocativa delle immagini.

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