In occasione del ritorno in sala di Essere e avere di Nicolas Philibert riproponiamo il saggio integrale scritto da Ezio Alberione sul cinema del regista francese e contenuto nel volume Nicolas Philibert. I film, il cinema, a cura di Luciano Barisone e Carlo Chatrian (Effatà Editrice, 2003, pp. 200). Per gentile concessione di Effatà Editrice.
«Quindi la vostra preparazione deve cominciare
in mezzo agli uomini vivi. La vostra prima scuola
sia il posto di lavoro, la casa, il quartiere.
Sia la strada, la metropolitana, e il negozio.
Tutti gli esseri umani
li dovete osservare in questi luoghi,
gli estranei come se fossero conoscenti,
ma i conoscenti come se fossero estranei.
[…] Per osservare si deve imparare a confrontare.
Per confrontare si deve avere già osservato.
Con l’osservazione si crea una scienza,
ma la scienza è necessaria all’osservazione.
Eppoi: osserva male colui che con l’osservato
non ha nulla a che fare. Con occhio più acuto
il frutticoltore osserva il melo, che non il passante.
Ma non vede l’uomo con esattezza chi non sa
che l’uomo è il destino dell’uomo»
(Bertold Brecht, Discorso agli operai attori danesi sull’arte dell’osservazione) (1)
Ci sono cineasti che il mondo lo sentono, prima ancora di guardarlo.
Che lo rivelano, anziché mostrarlo.
Che lo mettono in luce anziché metterlo in scena.
Che non si limitano a riprendere la vita, ma si sforzano di ridare vita a ciò che vedono. Ragion per cui, mentre sembrano solo documentare un dato, epifanizzano la realtà, trasformando ciò che è, ciò che semplicemente si limita a esistere, in qualcosa che c’è, che si pone in relazione, che diventa profondamente significativo: una realtà che interroga lo sguardo anziché limitarsi a occuparlo, un evento che diventa un avvento, un caso che si trasforma in destino.
La disposizione creativa di questi cineasti consiste, dunque, in un’autentica invenzione (dal latino invenire, trovare) del reale. Che possiede l’attributo divino della creazione, perché condivide quell’originaria disposizione amorosa che fonda la necessità creativa. Parla d’amore anche il “creatore” del bambino meccanico in A.I. – Intelligenza Artificiale di Spielberg, quando osserva: «Dio non creò Adamo perché questi lo amasse?», ma il suo è l’atteggiamento egoista del making, ossia dell’ideazione e della costruzione di qualcosa di cui si ha bisogno, fossero pure esistenze, caratteri e vicende. Ben diverso è l’atteggiamento di chi, come Nicolas Philibert, opera da caretaker della vita, della memoria, dell’esperienza.
Non vuole essere questa una divisione netta tra l’orizzonte morale della fiction e quello del documentario, ma una linea di demarcazione tra chi agisce per sé in direzione del narcisismo riproduttivo, della sterile innovazione, della disordinata implementazione, del semplice accumulo rispetto a chi invece si muove verso l’altro da sé, in funzione conoscitiva, riparativa, valorizzante e, in definitiva, davvero creativa.
Per evitare ogni semplicistica e manichea distinzione, si potrebbe ricordare che Krzysztof Kieslowski, partendo dalla definizione di Flaherty della cinepresa come «strumento della creazione», ha sostenuto la necessità di «creare una lingua nuova che scaturisca da una descrizione della realtà più precisa di quelle fatte finora» (2) e Stanley Kubrick, a proposito del suo 2001: Odissea nello spazio ha impiegato la categoria di «documentario mitologico». Formulazioni che si potrebbero applicare tranquillamente a Philibert che, di film in film, ha precisato con sempre maggiore attenzione la sua intenzione di descrivere la realtà, creando dei racconti straordinariamente potenti e profondi nell’illustrare la problematica e sempre sorprendente relazione dell’uomo con il mondo, con i suoi simili, con la storia. Un percorso che il cineasta ha compiuto partendo ogni volta dalla concretezza dei corpi, dal confronto con la natura, dall’esplorazione dei limiti e delle risorse dei sensi, e che, ogni volta, ha trasformato in questione filosofica, in problema culturale, in interrogazione del senso.
Il tempo del mito (quasi una cosmogonia)
L’introduzione ideale al cinema di Philibert la fornisce l’opera d’esordio, La voix de son maître (1978), codiretta con Gérard Mordillat. L’inchiesta sui capitani d’industria francesi ha un prologo rivelatore che mette in discussione proprio l’efficacia e la precisione del titolo scelto: “la voce del padrone” (in sua vece piovono una serie di suggerimenti alternativi che formano un ipotetico catalogo di sottogeneri del documentario: dal classista Les patrons al gangsteristico Oui boss, dall’intellettualistico Le nouveau animal politique al fantasy-action Les conquerants du possible, al gladiatorio Les gagneurs). È come se, fin dagli esordi, si ponesse il problema della scarsa capacità che il linguaggio dimostra rispetto alla definizione e alla descrizione esatta di ciò di cui vuole parlare. E, a ben vedere, tutto il cinema successivo di Philibert, rappresenta per l’appunto il tentativo (riuscito) di trovare il linguaggio giusto per raccontare il mondo, o meglio quella sua determinata porzione che è l’oggetto dell’interesse e della ricerca del cineasta. Ma, in quel primo film, emergono in nuce i tratti salienti delle successive opere. Anche solo dalla serie di titoli accennati si potrebbero intravedere le future predilezioni: la voix (la voce, l’ascolto, la parola), le maître (nell’accezione però di maestro, di figura guida), la conquête (in chiave agonistica-sportiva), l’animal (inteso proprio come bestiario), la politique (la profonda coscienza civile che ispira il suo cinema e che lo porterà, per esempio, a firmare il videoappello dei “sans papiers” di Francia)… Nella serie di interviste inanellate presenti in quel primo film si fa strada un’idea di cinema che fa interagire fortemente i corpi con lo spazio (nel caso degli esponenti del potere economico- gestionale viene prediletta una profondità di campo di ascendenza wellesiana). Nella scelta finale di mostrare i volti dei capi all’interno di monitor e visori si riconosce la coscienza critica e l’impossibile neutralità dello sguardo registico: la scelta di dislocare in un medium televisivo le voci e i volti dei padroni diventa così un segno che chiarisce la progressiva anonimizzazione e virtualizzazione del capitalismo, il suo effettivo allontanamento dalla realtà della fabbrica, ma anche una potente prefigurazione della videocrazia incombente (con Videodrome di là da venire). Le interviste sono inoltre punteggiate dalla visione delle fabbriche, delle catene di montaggio, da momenti di lavoro: in questo caso la macchina da presa, solitamente ferma, adotta spesso il movimento quasi a sottolineare la necessità che lo sguardo ha di scoprire ciò che preme ai margini dell’inquadratura, e che abbisogna dunque di arretramenti, avvicinamenti, spostamenti per poter essere compreso (al contrario le dichiarazioni dei “padroni” sono inquadrature fisse, spesso accompagnate da cartoline e didascalie che fungono da frontespizio dei diversi capitoli di una storia scritta che ammette teoricamente il cambiamento ma sostanzialmente risulta immodificabile e fissata una volta per tutte).
Dopo questo primo film dedicato ai numeri uno dell’industria francese e per tutto il corso degli anni Ottanta, Philibert sembra interessato ai protagonisti eccezionali, alle grandi imprese, alle sfide estreme. Il suo sembra davvero il tentativo di fondare una mitologia moderna popolata di dei ed eroi. Si pensi alla serie di film dedicati a Christophe Profit, protagonista di Christophe (1985), Y’a pas de malaise (1985), Trilogie pour un homme seul (1987). Le imprese eccezionali dell’arrampicatore solitario, capace di scalare pareti scoscese senza l’ausilio di corde e sistemi di sicurezza, non sono però solo un omaggio a una figura fuori dell’ordinario o una derivazione della sensibilità herzoghiana per il rapporto uomo-natura, per il confronto nietszchiano tra il limite umano e l’empito oltreumano. Un personaggio come il free-climber francese assume una valenza esemplare nel mettere a fuoco quel rapporto tra corpo e mondo che è al centro dell’interesse del cineasta (stante l’attenzione per le parole richiamata nel primo film, non sarebbe da escludere neppure che Christophe Profit tematizzi già – nomen omen – il rapporto tra una dimensione spirituale e una materiale, la tensione tra l’assoluto e il contingente).
Soprattutto – appare evidente in Y’a pas de malaise – si va imponendo, in questi film “agonistici”, la presenza deuteragonistica della macchina cinema (va in questa direzione anche la sottolineatura metalinguistica di tutta una serie di apparati comunicazionali che comprende segreterie telefoniche, apparecchi di registrazione del battito cardiaco, oltre alla presenza dei media). E si va definendo un’idea di cinema che Philibert non concepisce come sguardo estraneo, esterno, come semplice strumento di riproduzione dell’evento, ma come luogo di incontro, di relazione, di esperienza da condividere (cum munus non è forse l’etimologia di comunicare?). Nei film dedicati allo scalatore Profit non mancano peraltro accenni ironici (come il fatto di dover scalare le pareti della propria abitazione per poter entrare in casa alla fine di Christophe) che permettono di abbassare il profilo eroico e il registro epico. Da questo punto di vista, va nella stessa direzione demitizzante (anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario) la sottolineatura del tempo che trascorre. La tripla scalata invernale di Trilogie è concepita proprio come una sfida contro il tempo e si chiude sulla roccia che fu la prima palestra di Profit (segno che anche i giganti dell’alpinismo hanno cominciato da piccoli e anche per loro il tempo passa…).
Non è un caso dunque che la successiva comparsa di Profit non sia più in solitaria, ma al fianco di Maurice Baquet (Le comeback de Baquet, 1988), anziano attore e violoncellista appassionato di alpinismo, che realizza con trentadue anni di ritardo il desiderio di scalare una montagna e dedica l’impresa al compagno di escursioni del 1956, Gaston Rebuffat (un altro mito dell’alpinismo ormai consegnato alla storia). In questi film si articola un discorso complesso che parla di limiti da superare e di possibilità del corpo (e del cinema) da sondare, di progetti e ricordi, di sfide e percorsi, di spazi da conquistare o a cui fare ritorno, di tempi da rispettare o da ritrovare, di uomini soli con loro stessi e di una inevitabile dimensione pubblica dell’agire umano, di zone di confine tra terra e cielo… Ciò a cui assistiamo dunque non sono più solamente le imprese di Profit, Baquet (e Philibert), ma la visualizzazione di un’operazione conoscitiva, la riflessione su cosa significhi pensare noi stessi, conoscere il mondo, abitare il reale.
«Pensando noi facciamo inevitabilmente emergere dal profilo e dalla densità apparentemente così salda del reale il possibile: ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, ciò che potrà essere, e insieme ciò che non è stato e non sarà mai. Qui, in questa tensione, “il possibile e l’impossibile spinti all’estremo sono ugualmente realtà”. Forse potremmo concludere che la realtà non è un piano di consistenza: è l’estremo, è un confine. […] Ora forse possiamo chiamare questo pensiero il pensiero del confine: il pensiero che pensa il dentro e il fuori, il qui e l’altrove». (3)
Da questo punto di vista, appaiono particolarmente profonde alcune intuizioni del film con Baquet. L’ironica scena in cui Christophe invita Maurice a raggiungerlo e l’anziano attore sbuca inaspettatamente da una roccia in una posizione più in alto e più avanzata rispetto all’uomo che l’ha chiamato è la perfetta traduzione visiva di un’anteriorità del desiderio che scavalca la cronologia dei fatti (perché è vero che Christophe sta guidando Marcel sulla vetta, ma è il desiderio di Marcel che guida Christophe). Allo stesso modo le foto del 1956 o il vecchio filmato che ha per protagonisti Baquet e Rebuffat entrano nel tessuto del film del 1988, a dimostrazione che il cinema ha il potere di presentificare il passato (la liminalità del tempo cinematografico è avvalorata dal fatto di nascere sempre con una prospettiva futura, e dalla trasformazione dell’hic et nunc che succede davanti alla camera in qualcosa che è sempre già avvenuto quando arriva sullo schermo, e che, anche nel caso di una diretta, è comunque un non qui).
Nella stessa direzione si muove anche Vas-y Lapébie! (1988), il film dedicato a un mito del ciclismo francese. Anche in questo caso si alternano immagini del presente e del passato. Soprattutto, ancora una volta, come in precedenza era stato per la montagna, l’oggetto della passione eroica ed erotica di un uomo, ossia la bicicletta, si offre come estensione del corpo verso il mondo e come luogo di rivelazione del mondo rispetto al corpo. La bicicletta diventa infatti un modello di conflittualità sociale (nei termini civili della competizione sportiva) o di solidarietà (la comunanza di interessi tra vecchi e giovani ciclisti), uno spazio in cui l’uomo è solo con se stesso (talvolta lo spazio attorno all’anziano Lapébie in bici appare come “svuotato”) oppure un momento di forte condivisione. E ancora: dalla bicicletta l’ombra proiettata sull’asfalto allude al doppio fantasmatico che ogni esistenza porta con sé (ciò che è già stato, ciò che ancora ci attende). Lapébie, come Profit e come Baquet, è un’altra figura di confine: non è certo un caso che il suo film e la sua corsa lo portino infine, come un Antoine Doinel cresciuto, su una spiaggia, sulla linea che separa la terraferma e il mare, ciò che si para davanti e ciò che sta alle spalle. Un confine che allude a un’ulteriorità ma che si dà anche come sbarramento, come prigione.
Il corpo, che era stato protagonista indiscusso per le sue eccezionali qualità, ma che aveva già mostrato il suo essere esposto al tempo e all’invecchiamento, è ancora al centro di Migraine (1989), il cortometraggio realizzato per la serie “Et vous, comment ça va?”. In questo caso, però, anziché come spazio di apertura al mondo, si dà decisamente come chiusura nel suo ospitare un disagio, un malessere non ben definito (la domanda: «Cos’è quello che definite emicrania?» che ottiene l’insoddisfacente risposta: «È esattamente ciò che ha lei», è un’ulteriore conferma dei limiti che il linguaggio sperimenta e della tendenziale tautologia a cui spesso fa ricorso chi è chiamato a rispondere).
Fin dalla scelta di riprendere un salone da parrucchiere come se fosse uno spazio futuribile (sui caschi sta scritto “Spatial”) quello che il film mostra è un luogo del destino, un viaggio bloccato, un falso movimento, un imprecisato dentro/fuori del corpo e del mondo. Ogni elemento rivela un’incredibile densità simbolica. Quasi si trattasse dell’aggiornamento del mito platonico, ogni cosa rimanda a una metà mancante, a una costitutiva incompletezza, a un’inevitabile complessità: la visione della nuca è compensata dallo specchio che restituisce una frontalità altrimenti perduta (una scelta che non dispiacerebbe all’Edward Yang di Yi Yi); l’indicazione dell’emisfero sinistro (con tutto ciò che può esservi connesso dal momento che è la zona della creatività e della fantasia) allude alla duplicità costitutiva del cervello; si parla di disagio interiore ma si vede – chissà se per compensazione, sublimazione o rimozione – la cura esteriore del corpo… A questo punto sembra che, proprio come il tempo storico ha intaccato il tempo mitico, anche il corpo perfetto degli eroi non sia ormai nient’altro che un simulacro (perfettamente immobili e insensibili sono le teste su cui vengono messe le parrucche). Altri corpi popoleranno d’ora in poi le immagini di Philibert. Un altro tempo sarà al centro della sua attenzione.
Il fatto di chiudere Migraine con una definizione medica molto circostanziata assume quasi una valenza teorico/progettuale: il cinema “responsabile” (nel senso che si pone come responsum a una domanda) di Philibert non potrà fare a meno, d’ora in poi, di andare fino in fondo nella direzione di guardare ciò che sta dietro/dentro piuttosto che ciò che sta davanti, e non potrà fare a meno di studiare e restituire la sintomatologia del reale fino a correre il rischio di offrirsi come trouble visuel, come disturbo visivo.
È a partire da questa approfondita percezione dell’uomo e del mondo che il suo cinema scende dal mito alla storia (anche se, come vedremo, è una storia che ha nostalgia del mito), dal piano dello straordinario all’ordinario (per scoprire magari che niente è per davvero banale), dall’orizzonte del surplus a quello del deficit (che non è necessariamente uno svantaggio), dai grandi personaggi ai piccoli (che, manco a dirlo, sono dei giganti).
Il tempo della storia (quasi un’incarnazione)
Quale luogo meglio di un museo rende tangibile il senso della storia e del tempo? Quale luogo meglio di questo rappresenta però anche il tentativo di cristallizzare il tempo, di fissarlo nella perfezione assoluta (si dice dei capolavori che sono “senza tempo”)? Ed è per l’appunto un museo – anzi un vero e proprio archetipo museale – al centro di La ville Louvre (1990). Tuttavia il film opera un rovesciamento epistemologico del concetto di museo dal momento che sceglie una location che è quasi una concrezione di tempi storici passati, un deposito dell’immaginario e del simbolico, e ne inverte la prospettiva di senso, facendone un luogo del moderno (del presente) anziché una celebrazione del classico (del passato) e mostrandone, più che i contenuti tipici, quelli atipici: le persone che, al suo interno, vivono e lavorano.
I veri “fantasmi” del Louvre – una lettura autorizzata dall’inizio notturno e quasi “furtivo” del film – sono dunque gli operai, gli agenti di sorveglianza, i restauratori, gli allestitori, coloro che si fanno carico di quel luogo e delle presenze (oggetti, opere, visitatori) che lo abitano: una brulicante umanità – figura di una disposizione morale a prendersi cura – conquista finalmente il centro della scena e viene per così dire “osservata” dalle opere d’arte, dai ritratti e dalle sculture che sembrano passare dallo status di oggetti a quello di soggetti scopici – così diventando il modello di un’arte che si preoccupa di guardare anziché pretendere di essere guardata.
Nel rapportarsi alla polis del Louvre, Philibert riformula a modo suo il discorso sugli umili che fanno la storia (anche quella dell’arte o quella dei musei) assecondando una suggestione della storiografia che era già presente in Manzoni ed è stata consacrata dalle «Annales»: da questo punto di vista assume quasi una valenza programmatica la scena in cui gli operai, dopo aver issato una grande tela, sbucano da dietro il quadro che smette il ruolo di primattore per diventare una specie di quinta da cui fanno il loro ingresso sul palcoscenico quelli che normalmente ne sono esclusi. Altre scelte significative in questo senso sono rappresentate dalla sottolineatura del non visibile (dalla perlustrazione degli spazi sotterranei alle ombre che compaiono dietro le vetrate), dalla ripresa del modello agonistico degli scalatori (che questa volta però si inerpicano per lavare i vetri), fino alla galleria finale dei videoritratti dei lavoratori, vere e proprie statue viventi che la folla dei visitatori abitualmente ignora (il contrappasso philibertiano relega il pubblico al fuori campo delle voci e dei rumori di sottofondo nelle scene finali).
Oltre a ridare visibilità a ciò che solitamente è celato alla vista, La ville Louvre sviluppa anche una riflessione sulla forma/museo, interpretando alla lettera le acquisizioni teoriche contemporanee in ordine alla sua natura organica e sistemica, alla sempre pretesa e mai raggiunta neutralità del contenitore rispetto ai contenuti esposti, al complesso rapporto tra interno ed esterno che si istituisce, alla dialettica tra la polarizzazione dello sguardo che le opere richiedono e il rinvio ad altro che producono, alla connessione dell’edificio a un tessuto urbano (fino alla sua trasformazione morfologica e organizzativa in vera e propria città d’arte) (4). Altrettanto letteralmente emerge il modello ergonomico che organizza la realtà museale, se è vero che «Al momento della sua origine, il museo si è regolato, come l’Encyclopédie, sulla divisione manifatturiera del lavoro: il primo effetto della sua operazione “ragionata” è infatti di far apparire quel che si chiama “arte” come il prodotto collettivo di una massa di più lavoratori parziali, trasformati di conseguenza in semplici membri di un meccanismo globale retto dal museo stesso e in cui la “storia dell’arte” riconosce la propria forma metodica e feticizzata. Un meccanismo, come dice Baudelaire e come non si ripeterà mai abbastanza, ove ogni artista ha la propria “specialità” […]. Ma dalla manifattura si è passati ben presto al regime della fabbrica, del museo-macchina. La macchina che, come si legge in Marx, soppianta il lavoratore collettivo in quanto soggetto della produzione, cui i lavoratori sono semplicemente aggregati in qualità di organi coscienti ma subordinati, come i suoi organi incoscienti, alla forza motrice centrale». (5)
Non andrà dimenticato poi che la riflessione sui criteri di allestimento delle stanze consente di mettere a tema le opzioni drammaturgiche di fondo che si pongono anche per la forma/documentario. Mostrare tutto correndo il rischio che il visitatore (lo spettatore) si perda o utilizzare un criterio selettivo nell’esporre le opere? Detto altrimenti: mettere o levare? Il curatore dell’esposizione dice che preferisce mostrare le collezioni nella loro interezza piuttosto che puntare solo sui “pezzi forti” che sicuramente renderebbero più agevole e gratificante il percorso dello sguardo. Allo stesso modo il cinema di Philibert si rifiuta di assecondare in maniera banale e prevedibile le attese dello spettatore: ogni suo film è un esercizio dello sguardo, un articolato percorso di conoscenza, un’immersione nella sfaccettata e labirintica complessità delle forme del mondo.
Questa didattica dell’attenzione si precisa definitivamente con Le pays des sourds (1992), altro tassello – dopo la ville – di una topografia dei mondi a parte, degli universi nascosti, delle zone sconosciute. In questo caso si tratta dei non udenti, che rivendicano l’assoluta normalità della loro vita (e qui sta la straordinarietà), sovvertendo l’opinione comune della sordità come limite e rivendicandone anzi la sua natura di occasione, risorsa, addirittura vantaggio (un esempio: sebbene la lingua dei segni sia diversa da paese a paese, servono al massimo due giorni per intendersi perfettamente tra persone di diversi paesi).
Benché ricchissimo di umanità, il film non è in alcun modo centrato su quei “casi umani” che infestano, tanto per intenderci, la televisione del dolore dei nostri anni. Piuttosto, ancora una volta, Philibert sfrutta l’occasione per una riflessione filosofica davvero fondativa su un elemento invisibile e inaudito che costituisce la trama sotterranea e la base stessa del linguaggio: il silenzio (6).
Affrontando una questione centrale come la comunicazione, l’elemento metadiscorsivo risulta pressoché inevitabile: ragion per cui la musica, il cinema, il teatro entrano direttamente nel corpo del film. Ma la componente artistica non è qualcosa di altro rispetto alla vita, e quindi non può che partecipare della generale dialettica tra gioco e scuola, piacere dell’osservazione e dovere dell’apprendimento che innerva tutte le esistenze e i percorsi tracciati da Le pays des sourds (una scena per tutte: il viaggio dei bambini nel labirinto di vetro è un momento ludico che si fa oroscopo di una difficoltà a muoversi in un mondo segnato da una trasparente impermeabilità o da una stratificata fragilità).
La formula dei sordi dell’«imparare guardando», per la sua capacità di fondere spettacolo e insegnamento, è anche l’ideale epigrafe del cinema di Philibert, che si dà come somma di segni che sono nutrimento e bevanda per gli occhi, per la mente e per il cuore, che si offre come collezione di sintomi che si traducono in altrettanti stimoli (proprio come l’handicap acustico di fatto si traduce in un invito ad acuire le capacità visive).
Un altro museo, un altro archivio, un’altra collezione e un’altra esposizione sono al centro di Un animal des animaux (1994), il film dedicato ai lavori di ristrutturazione della Galleria di zoologia del Muséum National d’Histoire Naturelle. Ancora una volta si tratta di un’opera dai forti accenti teorici e metacinematografici: potrebbe essere vista, infatti, come appendice alla riflessione baziniana sul rapporto che il cinema istituisce tra il presente e il passato, tra la vita e la morte (quando parla del “complesso della mummia”, per cui si salva l’essere attraverso l’apparire), oppure come ricapitolazione/rilettura dei motivi presenti nel prologo del kubrickiano 2001 (la scimmia, la tigre, gli occhi, l’osso) o, ancora, in maniera più sotterranea ma altrettanto radicale, come riproposizione di quell’automatismo allusivo che caratterizza la presenza animale nella filmografia bressoniana (7).
Il museo degli animali è il regno della morte che interroga la vita (gli sguardi vitrei, fissi, agghiacciati sembrano scrutare, con la consapevolezza di una vanitas barocca, la fatica umana) e, insieme, è l’invocazione che le cose “finite” esprimono per non sentirsi vanificate (lo spostamento dei basamenti, i rumori meccanici, il make-up artificiale sembrano regalare per un momento alle statue impagliate la libertà del movimento, una presenza vocale, la consolazione della bellezza).
L’operazione di restauro del museo (dentro e fuori), prima che a un criterio di conoscenza scientifica (il regista dissolve al nero quando sente che «la comunità scientifica è soddisfatta»), risponde alla funzione rassicurante, esorcizzante e apotropaica dello spettacolo: «il visitatore deve avere l’impressione della ricchezza», ossia della quantità, della varietà, della molteplicità, del dominio, di una storia e di un tempo sotto controllo. Non per nulla la responsabile del museo vuole che le vetrine siano totalmente impermeabili alla polvere: e la sua richiesta, ispirata certamente da una comprensibile necessità pratica, tradisce l’ambizione di non vedere all’opera l’azione del tempo ed esprime la volontà faustiana di cristallizzare un risultato perfetto (ecco un altro esempio di nostalgia del mito nel pieno fluire della storia). Philibert filma il museo come se fosse la casa comune della famiglia terrestre, come un campionario delle varie forme viventi di cui mostra le evidenti diversità ma sottolinea anche la sostanziale uguaglianza (accomunate come sono dal loro status di “ex” e dalla loro collocazione attuale): la gloria trionfante del monumento implicita nell’esibizione museale cede dunque il passo all’insinuazione dolorosa del monimento (cosa che viene esplicitata chiaramente nel breve video promozionale realizzato per il Museo in cui sono assemblati vorticosamente fiori, insetti, animali e visi umani).
Ogni memento mori è anche un invito a vivere consapevolmente, con pienezza, fino in fondo. Ed è proprio l’intonazione del carpe diem quella che possiedono i videoauguri per i cinquant’anni della produttrice Catherine Roux (Rien que pour Catherine, 1995): una galleria di volti, diversi provini della stessa scena, tante variazioni sullo stesso tema, un’unica convinzione di fondo: «l’amicizia è una storia e una geografia condivisa» (ed è sul piano della partecipazione e dell’incontro che vale la pena di vivere e forse anche di fare cinema).
Nel tempo e nello spazio si gioca dunque la realtà storica degli uomini.
L’incipit di La moindre des choses (1996) è l’esplicitazione del percorso di progressiva demitizzazione rintracciato fin qui: la celebre aria di Gluck con il lamento di Orfeo che piange la perdita irreparabile di Euridice è la riprova che l’Eden e la perfezione del mito hanno lasciato il posto all’imperfezione della storia, a un tempo segnato dalla morte, dalla separazione, dalla solitudine (uomini soli attraversano il campo con la schiena inarcata, esprimendo tutto il disagio del loro stare al mondo). Quello degli uomini è il tempo del lutto, ma è anche il tempo della poesia, del canto e dello spettacolo come possibile elaborazione, come tentativo di ricostituzione di un ordine, che se non è proprio un cosmos è perlomeno una protezione.
Gli ospiti della Clinique de la Borde non sono freaks spaventosi o commoventi borderline. Sono piuttosto l’esplicitazione di una condizione universale: quella di un’umanità che non è pienamente padrona di sé e del suo destino, e non è però totalmente in balia del caso o della necessità (“borde” è parola desueta per dire “mezzadria”: e questa in fondo è la condizione degli uomini sulla terra). Come le foglie al vento (che punteggiano il film): fragilmente collegate a un ramo e le une alle altre, uniche eppure molteplici, indistinguibili le une dalle altre eppure diverse l’una dall’altra.
I preparativi dello spettacolo di Ferragosto seguiti nel corso del film mettono in luce chiaramente le tensioni paradossali che regolano la vita di ciascuno (come il cinema): la necessità di contemperare controllo e libertà, doveri e diritti, disciplina e autonomia, negoziazione relazionale e salvaguardia della propria unicità. Di queste tensioni partecipano tanto gli ospiti della clinica quanto i loro assistenti o gli osservatori, in primis il regista. Nessuno si pone al di fuori o al di sopra di quel mondo: nei film di Philibert non c’è mai una voce fuori campo che spiega, commenta o giudica. Il regista si pone al livello di ciò che osserva; se la sua voce entra nel film, lo fa per dialogare con le persone che stanno davanti alla macchina da presa. Tutto avviene «entre nous» e, come gli viene detto da uno dei “pazienti”, in quel “noi” è compreso anche l’osservatore (il regista ma anche lo spettatore). L’occasione di confrontarsi con un’esperienza di questo tipo permette di chiarire dunque l’impostazione di fondo di Nicolas Philibert, che potrebbe sottoscrivere le parole di un grande uomo di teatro che conobbe anche l’esperienza dell’internamento in manicomio, Antonin Artaud:
«Vogliamo arrivare a dar vita a un certo numero d’immagini, ma immagini evidenti, palpabili, che non siano rovinate da un eterno disinganno. Se facciamo un teatro non è per rappresentare lavori, ma per riuscire a fare in modo che quanto c’è di oscuro nello spirito, di occultato, di irrivelato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale. Non ci proponiamo, come è stato fatto finora, com’è sempre stato richiesto al teatro, di dare l’illusione di ciò che non è; ma al contrario, di fare apparire agli sguardi un certo numero di scene, di immagini indistruttibili, incontestabili, che parlino direttamente allo spirito. Gli oggetti, gli accessori, perfino le scene che figureranno sul teatro dovranno essere intesi in senso immediato, senza trasposizione; dovranno essere presi non per ciò che rappresentano, ma per ciò che sono in realtà. […] Non ci rivolgiamo agli occhi, né all’emozione diretta dell’anima; quello che cerchiamo di suscitare è una certa emozione psicologica, in cui saranno messi a nudo gl’impulsi più segreti del cuore» (8)
Nell’orizzonte della relazione e della comunicazione tra gli uomini, il teatro – il percorso teatrale – si pone dunque come lo spazio privilegiato della condivisione di una ricerca, dell’esplicitazione di un senso, di una direzione, di un destino. Quello di una quête che cerca se stessa, di una recherche che è già un obiettivo, di un’interrogazione che vale in sé e non per le risposte o i risultati che ottiene, in quanto riflette una disposizione attiva e non passiva nei confronti della realtà. Tutto questo lascia intendere la domanda che dà il titolo al film dedicato a una classe di allievi della Scuola del Théâtre National de Strasbourg. Qui sait? (1999) racconta il tentativo dei giovani teatranti di restituire un’immagine della loro città, ma soprattutto mostra e valorizza l’importanza del processo prima e più di qualsivoglia prodotto.
Nella sua versione laboratoriale (ossia come percorso di formazione più che come momento di performance) (9), il teatro sprigiona una straordinaria ricchezza: non solo perché utilizza una pluralità di linguaggi (linguaggio visivo, sonoro, verbale, corporeo, gestuale…), ma perché comporta sperimentazione e ricerca interdisciplinare (in quanto sintesi di abilità e competenze diverse: scrittura, dizione, musica, scultura, costumistica…), spinge all’innovazione e alla creatività, invita a passare dalla riflessività (sapere) all’operatività (saper fare). Soprattutto, dal punto di vista relazionale, porta a interrogarsi sulle motivazioni del proprio agire, rinforza l’attenzione, consente una migliore conoscenza di sé, richiede un’inevitabile apertura verso gli altri, attiva inoltre delle capacità di valutazione (e autovalutazione) e stimola a un lavoro collaborativo piuttosto che direttivo (in ciò si differenzia da un modello di teatro che delega alla figura demiurgiuca del regista ogni scelta).
Le sequenze iniziali del film costituiscono una perfetta fenomenologia del mondo teatrale (o del mondo tout court): le ripetizioni del canto popolare alsaziano introducono l’orizzonte della prova, l’ingresso che tutti valicano con difficoltà per via di una porta che non si apre agevolmente segnala l’aspetto di iniziazione (come ha dimostrato Turner, c’è il rito all’origine del teatro), l’ascolto attento di un suono sconosciuto rimanda alla necessità di una riattivazione sensoriale (se i sordi sentivano con gli occhi, gli udenti devono imparare a vedere con le orecchie) e di una riscoperta del mistero del reale (l’etimologia della parola “mistero” rimanda all’idea di una conoscenza a occhi chiusi), per avviare un processo creativo (vorrà pur dire qualcosa il fatto che quel che sembrava un rumore meccanico in realtà sia il verso di una cicogna…).
Appare chiaro dai ragionamenti che siamo venuti facendo fin qui che il cinema di Nicolas Philibert è un autentico processo educativo: per il talento che ha nel far emergere le cose che normalmente sono nascoste; per lo spirito nobilmente didascalico che lo permea; per la funzionalità e la discrezione con cui si mette al servizio delle diverse situazioni che affronta; per il rispetto che dimostra di fronte all’unicità di ogni cosa (anche della moindre des choses), e, insieme, per la capacità di cogliere la portata universale che ogni elemento possiede (purché attentamente osservato e profondamente capito).
È assai significativo che Philibert abbia raggiunto il grande successo di pubblico in Francia (con risultati incredibili per un documentario) con un film, Être et avoir (2002), che racconta un anno di scuola di una classe unica in uno sperduto villaggio dell’Auvergne. Il maestro Georges Lopez, che ad alcuni potrà sembrare un po’ troppo antiquato nei suoi metodi didattici, incarna i due poli di un autentico progetto educativo: oltre a “tirare fuori” (dal latino e-duco) e valorizzare le peculiarità di ciascuno, cercando di stabilire con i singoli una relazione e un’attenzione speciale, si preoccupa di porsi come guida, pastore, guardiano di una piccola comunità che vive non pochi disagi e travagli. È un vero insegnante: uno che “segna dentro” al cuore e alla mente i valori di fondo (être) e gli strumenti irrinunciabili (avoir) per rapportarsi al mondo, ossia il rispetto di sé e degli altri, accanto al leggere e al far di conto… Quel che conta, per se stesso e per i suoi bambini, è lo sviluppo di un’intelligenza emotiva (10). E, infatti, sembra proprio che loro – il maturo istitutore come i piccoli che si stanno affacciando alla vita – abbiano già visto, abbiano già sentito tutto: la delusione e la speranza, le segrete sofferenze e le paure profonde, l’incidenza condizionante dell’ambiente e la funzione liberante dell’impegno, la solitudine e la solidarietà, la distrazione e la responsabilità, la fatica e la soddisfazione del lavoro, la possibilità di far del male e quella di far del bene… È la stessa esperienza che può fare lo spettatore che ha Philibert come maestro. Il suo cinema è una lezione impegnativa ma non impositiva, rigorosa ma non schematica, convincente ma non dogmatica, su come la vita sia difficile e meravigliosa, su come sia problematico e bello abitare un mondo dove regna la morte e rifiorisce comunque la vita.
Note
(1) BERTOLD BRECHT, Scritti teatrali, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pp. 226-227 (ed. or.: Frankfurt am Main, 1957).
(2) KRZYSZTOF KIESLOWSKI, Drammaturgia della realtà, in ENRICO GHEZZI (a cura di), «Panta cinema», n. 13, 1994, p. 285 [si tratta del saggio di diploma scritto nel 1968, poi pubblicato in «Film na swiecie» n.3/4 (388/389), 1992].
(3) FRANCO RELLA, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 226-227.
(4) «Collegato alle reti metropolitane urbana e regionale il Louvre si fa nodo di primaria importanza a livello territoriale, un centro del centro che riconosce nell’arte, – in questo caso, forse, nella Storia dell’arte – il vertice anche spaziale dell’intera organizzazione metropolitana» (FRANCO PURINI, I musei dell’iperconsumo, in «Navigator», n. 6, 2002, p. 17; numero monografico dedicato a “l’espansione dell’arte”).
(5) HUBERT DAMISCH, Il dispositivo museo, in «Lotus international», n. 35, 1982, p. 10.
(6) «È nel silenzio e dal silenzio che io, mondo e linguaggio emergono nella loro correlazione unitaria: poli enigmatici di un medesimo gioco linguistico, o linguistico- segnico, maschere dello Stesso, distanze approssimate in cui, come diceva Peirce, ognuno è, là dove funziona, cioè dove si annuncia e fa eco» (CARLO SINI, Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Marietti, Genova 1989, p.
13).
(7) «Sembra quasi che, in molti suoi film, Bresson abbia allestito il set di quella Genesi che non aveva potuto realizzare […] un elenco incredibilmente ampio che va dal gatto instrumentum diaboli di La conversa di Belfort all’asino figura Christi di Au hasard Balthazar, dalle pernici e lepri di Mouchette (“moschina” a sua volta) alle foche uccise crudelmente nei filmati ecologisti di Il diavolo probabilmente, dalle partiture sonore dei nitriti equini di Lancillotto e Ginevra all’abbaiare del cane di L’argent. In ogni caso, che siano figure centrali o marginali, si tratta di presenze che sprigionano sempre una ricchezza di senso simbolico e allegorico, e che esprimono con l’automatismo della naturalezza la creaturalità di cui è intriso il mondo-cinema di Bresson» (EZIO ALBERIONE, Quattro parabole di un sognatore, in DARIO VIGANÒ (a cura di), Il cinema delle parabole, vol. 2, Effatà, Cantalupa (To) 2000, p. 42).
(8) ANTONIN ARTAUD, Manifesto per un teatro abortito in ID., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 13-14 (il “manifesto”, redatto nel novembre 1926, apparve in «Cahiers du Sud» nel febbraio 1927).
(9) Ma Qui sait? è un’autentica performance. «Un’esperienza vissuta è già in se stessa un processo che ‘preme fuori’ verso un’ ‘espressione’ che la completi. Qui l’etimologia di performance può fornirci un indizio prezioso: essa infatti non ha niente a che fare con ‘forma’, ma deriva dal francese parfournir, “completare” o “portare completamente a termine”. Una performance è quindi la conclusione adeguata di un’esperienza» (VICTOR TURNER, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 36-37 (ed. or.: New York, 1982). A ben vedere, questa concezione si oppone all’idea di performance oggi in voga, ossia all’idea del prodotto formato e finito, all’esibizione di un risultato che viene dopo una serie di preparativi, perché assume il percorso, la ricerca, le prove come parte integrante, caratterizzante, costitutiva della stessa performance.
(10) «L’intelligenza accademica non offre pressoché alcuna preparazione per superare i travagli e cogliere le opportunità che la vita porta con sé. Tuttavia, anche se un Q.I. alto non è una garanzia di prosperità, prestigio o felicità, le nostre scuole e la nostra cultura si fissano sulle capacità accademiche, ignorando l’intelligenza emotiva. […] La vita emotiva è una sfera che, come sicuramente accade nel caso della matematica o della lettura, può essere gestita con maggiore o minore abilità, e richiede un insieme di competenze esclusive. […] l’attitudine emozionale è una meta-abilità, in quanto determina quanto bene riusciamo a servirci delle nostre altre capacità, ivi incluse quelle puramente intellettuali» (DANIEL GOLEMAN, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996, p.56; ed. or.: New York, 1995).