Due opere italiane, un romanzo e un fumetto, rievocano con grande forza immaginifica la vicenda tragica di un battaglione di eroi a lungo trascurata (e oscurata) dalla Storia. Il tempo, per una volta, ha fatto pulizia: l’epopea di un manipolo di indomiti combattenti che si votarono alla sconfitta in nome di un ideale di giustizia e libertà, cresciuta nei decenni, è ormai acquisita al patrimonio culturale di due popoli, quello irlandese e quello messicano. Pino Cacucci con Quelli del San Patricio (Feltrinelli, 2015) e Andrea Ferraris con Churubusco (Coconino Press Fandango, 2015) ci suggeriscono che anche quello italiano ha qualche motivo per ricordarla con orgoglio.
Tutto iniziò con Fort Alamo. Non siamo americani, eppure siamo cresciuti imparando la saga del forte dei pioppi, con il racconto ricco di aneddoti della resistenza all’assedio, dell’eroica morte di tutti i “buoni”, e le annesse leggendarie apologie di Davy Crockett, Will Travis, Jim Bowie, Sam Houston, oltre alla contestuale demolizione del cattivone Santa Ana. Colonna sonora dell’impresa, la poesia malinconica e ripetitiva del De Guello che -passando per Un dollaro d’onore – è esploso da noi negli anni Sessanta, nella versione morriconiana, che esiste perfino cantata da Gianni Morandi! Tuttavia, nonostante la retorica patriottica, esaltata anche dal (non memorabile) The Alamo diretto da John Wayne nel 1960, molti dubbi circa la vera natura dei prodi difensori, delle loro gesta, dei loro trascorsi e soprattutto dei loro scopi, rimaneva. Già qualche anno fa, sul versante degli sconfitti, Paco Ignacio Taibo II aveva ridimensionato – con la consueta miscela che nasce dal lavoro del giornalista scrupoloso, dello storiografo competente e del letterato di primo livello –la portata dell’impresa e delle successive vicende, che avrebbero condotto, in conseguenza dell’innesco di uno spirito revanscista implacabile sulle esigenze commerciali dei neonati USA, all’annessione americana del Texas e poi, con un blitz meno noto ma ben più efficace, di quasi tutti i territori dell’Ovest, a cominciare dall’ ambitissima California.
Nel saggio di Taibo, Alamo (Edizioni Tropea, 2012), ci sono due elementi di particolare interesse. Il primo è la conferma di un giudizio assolutamente negativo per il general, poi presidente della Repubblica, Antonio Maria Severino Lopez de Santa Ana: oltre che cattivo, emerge che fu pessimo stratega, militare incompetente (incapace per di più di valutare qualità e limiti dei suoi uomini), un corrotto e bugiardo impenitente. Il secondo elemento evidenziato è che, per i difensori texani, stando alle fonti messicane rispolverate dallo scrittore ma anche a molti documenti americani coevi, è d’obbligo coltivare se non altro il dubbio che – aldilà della “moralità” personale, controversa, e del patriottismo disinteressato, improbabile – non fossero nemmeno quegli eroi impavidi che sono diventati nella storia, scritta come sempre dai vincitori. Soprattutto i mercenari del Texas sono stati di fatto protagonisti di efferatezze incredibili, che se non ne sminuiscono il valore agli occhi di chi guarda al risultato immediato (l’acquisizione agli States della ventottesima stella, quella del Texas) e di medio termine (la conquista della California e delle sue pertinenze, che sono pari a circa un terzo degli attuali USA, strappate al Messico in conseguenza di una guerra di annessione ridicola, resa quasi comica dall’imbelle resistenza di Santa Ana), gettano una luce diversa sulla materia di cui erano fatti e sul modo in cui le vicende sono state raccontate.
Prima di Taibo ci avevano provato autori di origine irlandese (su tutti il bostoniano Peter F. Stevens) a riprendere in mano i documenti, soprattutto per ricordare uno spin off del conflitto, che è l’epopea controcorrente dei cosiddetti “San Patricios”. E poi arrivò , nel 2010, la volta dei Chieftains insieme al magnifico RyCooder (con l’aggiunta di alcuni ospiti messicani come Lila Downs), che incisero San Patricio, album pubblicato dalla Decca che crea un collegamento tra grandi perdenti della storia, gli irlandesi e i messicani. Ciò che rese possibile questo incontro tra sconfitti furono le due grandi “carestie delle patate” (1740-41 e 1845-49), che portarono un enorme flusso migratorio prima verso l’Inghilterra, poi verso gli Stati Uniti. In nessuno dei due casi, il popolo d’Irlanda trovò braccia aperte in segno di accoglienza. Bollati in Inghilterra come sporchi papisti, ubriaconi che si riproducevano indecentemente come conigli, cercarono di integrarsi arruolandosi nell’esercito; ma quelli che riuscirono a entrarci vennero trattati come cittadini di serie B, durante e dopo l’avventura coloniale britannica nel Nuovo Mondo. E le cose proseguirono esattamente allo stesso modo nell’Ottocento nell’esercito americano, dove gli irlandesi si trovarono in buona compagnia di italiani e tedeschi, con la sola differenza che parlavano già la medesima lingua degli autoctoni: la disciplina dell’esercito statunitense ereditò quella britannica e con essa i pregiudizi razziali che la caratterizzavano, per cui lo stigma dell’indisciplina, dell’alcolismo a oltranza e dell’inferiorità continuò a bollare i poveri irlandesi anche nel nuovo mondo.
Nel frattempo il Messico aveva abolito, con una grande battaglia di civiltà, la schiavitù, che resisteva invece negli Stati Uniti del Sud, solo attenuata dal divieto di importare nuovi soggetti dall’Africa. Arriviamo al 1846: americani e messicani si contendono il Texas che, sebbene in modo controverso, dichiara la sua adesione alla confederazione americana. Il neo eletto presidente James Knox Polk crea un incidente diplomatico ad hoc per provocare una reazione (con il sacrificio di alcuni soldati) e consentire alle proprie truppe di invadere il Messico, attraversando il Rio Grande. Polk in realtà non fornì mai la localizzazione del luogo dove sarebbero stati uccisi i soldati americani, ma fu sufficiente una martellante propaganda sul “sangue americano versato” per mettere a tacere l’opposizione liberale (capeggiata dal futuro presidente Abramo Lincoln) e ottenere una sollevazione popolare in favore dell’intervento militare. Nella confusione, vuoi per istintiva simpatia verso altri poveri, sfruttati e oppressi dallo stesso governo, vuoi per la comune osservanza religiosa, un intero battaglione di soldati irlandesi guidati dal tenente (poi maggiore, nella nuova avventura) John Riley – e innervato con innesti italiani, tedeschi, spagnoli e polacchi -passò dalla parte dei messicani. Combatterono tenacemente, senza soste e con particolare occhio per mettere nel mirino i propri ex ufficiali. Forse per questo, quando alla fine molti vennero catturati, non fu loro applicata la legge marziale, sottoscritta da ambo le parti combattenti, che prevedeva la fucilazione per i disertori, indipendentemente dalle circostanze. I San Patricios – così sarebbero stati ricordati nella mitologia messicana – furono tutti impiccati, come ultimo sfregio, con la (probabile) eccezione di Riley, a cui fu riservata forse la sorte peggiore: sopravvivere da reietto, insinuando il dubbio (non giustificato) che avesse rinnegato la causa per guadagnarsi la vita. Se gli americani fecero calare il sipario per decenni sulla vicenda, in Messico la fama di questi eroi crebbe negli anni. Oggi l’opera di recupero storiografico può dirsi compiuta, anche grazie all’orgoglio ritrovato del popolo messicano: negli ultimi vent’anni irlandesi e messicani in costumi d’epoca sfilano a New York nel giorno di San Patrizio (17marzo) ed esistono perfino scambi diplomatici e ufficiali tra societàstoriche di entrambi i Paesi .
Lo sguardo italiano
Gli ultimi arrivati a trattare la materia, si diceva, sono due italiani. Che giocano su alcune certezze e anche sui vuoti della storia ufficiale, per riempirli con la loro fantasia. Tra le certezze vi è quella che su circa 200 uomini del battaglione San Patrizio, si conosce il luogo di nascita di soltanto 103 di essi, e risulta appurato che solo 40 erano irlandesi: il resto erano nativi degli Stati Uniti (e ciò toglie, forse definitivamente, valore all’inquadramento della diserzione come un fatto puramente etnico-religioso per conferirle una dimensione più universale di rifiuto di una guerra ingiusta e di fuga da ufficiali mascalzoni e da un establishment guerrafondaio) o dell’Europa, e tra questi c’erano anche degli italiani. Il genovese Andrea Ferraris, allievo di Luzzati, in “Churubusco” (che si è meritato la breve ma efficace introduzione di Paddy Moloney, leader dei Chieftains) parte da questa certezza, cioè la presenza di italiani tra i caduti del San Patrizio (verificata di persona: sulla lista dei 103 figura il nome anglicizzato di tale Robert Garretson nato a Messina e morto a 22 anni) e costruisce il suo graphic-novel su un personaggio di finzione, l’italiano Rizzo, che riassume in sé tutte le speranze e tutte le problematiche dell’immigrato scappato da un passato di fame, violenza e ristrettezze per ritrovarsi arruolato in un esercito che lo tratta come un corpo estraneo. L’autore, raccontando con tratti ombrosi, immagini asciutte e un linguaggio scarno la caduta del pueblo di Churubusco – leggendaria fortezza che costituì l’ultimo baluardo difensivo dei San Patricios e il cui nome è la confusa traduzione spagnola del nome aztecoHuitzilopochco – rappresenta il dolore di chi non si sente a casa in nessun posto, lo sradicamento definitivo e allo stesso tempo la voglia di pace che troverà risposte in un finale onirico.
Più ambizioso il progetto di Cacucci, che torna al romanzo dopo anni di scarsa frequentazione, in cui peraltro non ha mai smesso di raccontare (ma con altra forma: racconto o saggio) storie di perdenti, di oltraggiati, di calpestati, con particolare attenzione per quel Messico che è la sua seconda patria. Qui non siamo al livello di capolavori come In ogni caso nessun rimorso o Puerto Escondido, soprattutto sul piano letterario: la prosa dello scrittore piemontese appare un po’ involuta, a tratti banale, con cadute di tono e passaggi a vuoto, anche se la lettura rimane scorrevole. Cacucci imposta la narrazione di Quelli del San Patricio come il flusso di coscienza che un invecchiato e abbrutito John Riley – stabilitosi nella portuale Vera Cruz dopo essere stato marchiato sul volto e risparmiato dal patibolo per ordini superiori –lascia scorrere senza filtri mentre sopravvive tra cattivo whisky, ricordi e rimorsi. Ma, anche se l’attenzione è per un personaggio reale la cui vera fine è tuttora avvolta nel mistero (non del tutto svelato dagli archivi parrocchiali di Vera Cruz), lo scrittore ritaglia un cameo di rilevo per il soldato Ciro, eroico italiano (del Sud, come vuole il nome più napoletano che ci sia), tiratore ineguagliabile ed eroico difensore di Churubusco. Il ragazzo italiano muore pensando “Ma dove cazzo sono venuto a crepare…”. A noi basta ricordare Ry Cooder per riportare a dimensione più ampia la sua esperienza e quella di altri europei caduti per il Messico contro l’invasione americana. Il musicista californiano fa infatti dire al protagonista della ballata The Sands of Mexico, uno delle più belle tra quelle che compongono “San Patricio”: “La storia mi assolverà, qui sulle sabbie del Messico…”. Tutti assolti e ricordati, insieme ai loro sogni, belli anche se non si sono avverati. Ma indispensabili, perché altri potessero sognare dopo di loro.