The Last Pennant Before Armageddon

1908

Un secolo. Cento(otto) anni di abbagliante solitudine, indisturbata dal triviale clamore delle celebrazioni e dalla banalità del successo. Cento(otto) anni senza titolo per scrivere la storia più bella del baseball. Non vincere le World Series per i Cubs è stata una costante per più di un secolo. Lo è stata per Chicago, la sconfitta faceva parte del suo tessuto sociale. Come la speranza in primavera e la ricreazione in estate. Poi a ogni autunno le temperature si abbassavano con la guardia. I Cubs cedevano la vittoria all’avversario e i legni al rigore dell’inverno. Era un ciclo ‘naturale’ costante e affidabile. Una stagione di stagioni che esprimeva la filosofia e la tolleranza dei suoi tifosi. Tifosi di baseball riuniti al Wrigley Field ed educati alla sconfitta. Al valore della sconfitta che come la passione per il baseball a Chicago si tramanda di padre in figlio. Si impara con le statistiche e gli aneddoti. Perdevano i campionati i Cubs ma mai la grazia del ‘saper perdere’, imparando in un secolo la carica creativa dell’errore. Così negli anni la gestione della sconfitta a Chi-Town è diventata una competenza chiave di cittadinanza che ha addomesticato la paura dell’avversario, ridotto la tracotanza e prodotto una comunanza di destino. Non faceva niente, tutto andava bene, si falliva e si ricominciava, si beveva un’altra birra, si godeva il tempo ancora buono e il vento che soffiava il profumo della senape degli hot dog verso il lago Michigan. Chicago ha sempre potuto contare sui vincenti White Sox eppure ha resistito accanto ai suoi lovable losers. Così a Chicago chiamavano i Cubs che non vincevano una World Series dal 1908.

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Nelle notti di novembre l’umidità dell’estate passata resisteva come quella condanna che non passava mai. La loro coazione a ripetere era così leggendaria da finire in un film di Zemeckis. Marty McFly  ‘ritornava al futuro’ e scopriva  la vittoria dei Cubs in un ologramma del 2015. La profezia del racconto americano ha sbagliato di poco ma i Cubs a questo giro di basi non hanno sbagliato nulla interrompendo un digiuno sportivo che durava da 108 anni. Ma quando si tratta dei Cubs non conta solo cosa hanno fatto ma come lo hanno fatto. Perché la vittoria del 2 novembre a Cleveland contro gli Indians ha testato ancora una volta il destino e una sopportazione secolare. Così quell’epica notte, gli Indians, base dopo base, accor345ciano lo svantaggio, raggiungono il pareggio e guadagnano un nuovo inning, un tempo supplementare in cui giocarsi il titolo. Ma prima che gli dei esprimano il loro favore, il cielo si abbatte sul diamante del Progressive Field per diciassette minuti. Un intervallo lunghissimo per i chicagoans raccolti dentro e fuori lo stadio in attesa che il miracolo si compia. La vittoria doveva essere spettacolare ma anche sofferta perché il baseball è crudele e i Cubs sono la manifestazione evidente e irriducibile di quella disposizione. Sisifo sul monte di lancio, dovevano soffrire un’ultima volta prima di vincere, prima della celebrazione di una vita spesa dietro a una pallina lanciata in cielo. Poi semplicemente accade. L’immaginario emotivo si scrolla di dosso un secolo di insuccessi e la gente scende in strada incontenibile eppure umile. Come il loro team, matrice narrativa della città, che prova ad abituarsi allo status di vincitore, firmando autografi da Macy’s o cantando in divisa e paglietta al Saturday Night Live. In The Last Pennant Before Armageddon, racconto ‘magico’ sul baseball, W. P. Kinsella immaginava la fine del mondo dopo la vittoria dei Cubs contro i Dodgers. Oggi l’America ha un nuovo presidente. E forse la fine comincia con Donald Trump. I riflettori si spengono e la magia svanisce come in un altro miracoloso romanzo di Kinsella (Shoeless Joe).

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