Su RaiPlay il viaggio nel cambiamento di Jia Zhang-ke con I figli del fiume giallo

Qiao e Bin si amano: lui è un boss della malavita locale, lei gli sta accanto con lo sguardo innamorato e una naturale grazia che diffonde attorno a sé. Attorno a loro la Cina sta cambiando – siamo nel 2001 – e le nuove generazioni vogliono sostituire le precedenti, anche nel mondo criminale. Bin viene assalito e picchiato selvaggiamente da una banda e, per fermare il pestaggio, Qiao spara un colpo di pistola. Per questo viene arrestata e condannata a cinque anni di carcere. Jia Zhang-ke torna a raccontare le trasformazioni del suo paese attraverso l’altalena dell’amore di due personaggi che abbraccia, come già il precedente Al di là delle montagne, tre momenti storici differenti. La prima parte racconta, oltre alla relazione dei protagonisti, un modello di società (e non solo quella criminale) fondata sull’onore, sulla rigida gerarchia, sull’osservanza di regole di convivenza e convenienza. Sullo sfondo le vecchie generazioni (il padre di Qiao, che vede la sua città andare in rovina) diventano testimonianza vivente di un mondo che non esiste più: la Cina delle miniere, della solidarietà operaia, del grande balzo in avanti di Mao. La seconda parte del film, quando Qiao esce di prigione, torna sui luoghi di Still Life (Leone d’oro a Venezia nel 2006). La costruzione della diga delle Tre Gole è destinata letteralmente a sommergere un pezzo di storia: paesi e persone coperte dall’acqua e condannate a un oblio in tempo reale. Jia segue la sua protagonista e il suo reinserimento nella società, racconta l’arte di arrangiarsi e la motivazione sentimentale che la spinge a cercare di riprendersi ciò che ha perso.

 

 

La terza parte, ai giorni nostri, ritrova i protagonisti stanchi e sconfitti, tornati a popolare quei luoghi che li avevano visti felici: Bin è incapace di accettare la sua infermità, fisica e psicologica; Qiao non demorde, nel tentativo anacronistico e audace di dare un senso nuovo a un tempo nuovo, destinata alla solitudine e alla sconfitta anche senza piegarsi. Ash Is Purest White  (in concorso) è, come tutti i film di Jia, un viaggio nel cambiamento della Cina che è prima di tutto una mutazione della geografia, allo stesso tempo fisica e umana. Il suo cinema sembra ormai inseguire l’ampio respiro della Storia e le ripercussioni naturali che le vicende pubbliche hanno sui luoghi e, quasi come conseguenza, sull’anima dei protagonisti. Lo stile è contemplativo, puntuale, di un’umile solennità. L’economia di gesti, in un rifiuto dell’enfasi che non silenzia mai la potenza del racconto, si racchiude nella recitazione compressa, sottile, a tratti sublime di Zhao Tao che, come nel film precedente, assume sul suo corpo un significato simbolico che rafforza e distilla la costruzione del personaggio. Jia lavora sul tempo, sulle connessioni che mai scompaiono, sui legami che dettano legge. Il suo cinema si definisce sempre di più come un lavoro continuo sulla mutazione, sul passato che scompare e il futuro che si riesce solo a intravedere. L’irruzione di una cultura altra (che in Al di là delle montagne si tramutava in un finale tra commozione e rassegnazione sulle note di Go West dei Pet Shop Boys) si insinua con naturalezza in un mondo che pareva immutabile: spettacoli circensi d’altri tempi si sovrappongono alle discoteche dove impazzano i Village People. I cinesi cambiano e con loro cambiano le abitudini, le parole, i modi di divertirsi. Solo Qiao, caparbiamente, crede di poter ricercare il tempo perduto, di attraversare un mondo diverso ricostruendo luoghi e legami. La mistica del jianghu– che letteralmente significa “fiumi e laghi” ma che per estensione assume un senso più largo, di rifiuto della morale comune all’interno delle società segrete – permea la prima parte del film di un languido senso del passato, ma Jia sa guardare al tempo con lucidità anti-nostalgica descrivendo un presente quasi intangibile in un mondo che corre senza che, apparentemente, nessuno riesca a raggiungerlo. Una realtà inafferrabile come il destino di Qiao, destinata a restare incastrata, come si vede nella splendida sequenza finale, in un’immagine sempre più sgranata, quasi a rendere tangibile l’impossibilità di trovare un rifugio sicuro dal turbine del mondo.