Cannes 72- L’antropologia magica di Bacurau

Quando Carmelita muore, a Bacurau si sentono tutti più soli. Siamo in un futuro prossimo, in un villaggio sperduto nell’Ovest del Pernambuco. La donna, a novantaquattro anni, era la matriarca del paese: un luogo dimenticato dalla modernità dove però si aggirano con orgoglio insegnanti e prostitute, dottoresse alcolizzate (Sonia Braga, ormai elevata a figura simbolica) e giardinieri, negozianti e bambini in una sorta di mescola anarchica lontana dagli interessi del Brasile contemporaneo e globalizzato. Con la morte di Carmelita sembra svanire l’intero villaggio, che scompare letteralmente dalle mappe e non riceve più l’acqua, sabotato da un potere che per guardare il futuro vuole dimenticare radici e passato, affondarli, farli svanire come in un sogno sconnesso dalla realtà. Kleber Mendonça Filho torna a Cannes a tre anni di distanza da Aquarius, firmando la regia con l’abituale collaboratore Juliano Dornelles e mettendo in scena una nuova ricognizione, metaforica e onirica, del proprio paese. Abbandonando la Recife dei due film precedenti, i due registi compiono un passo ulteriore nel loro viaggio topografico del Brasile, mettendo da parte città e condomini per immergersi nel cuore pulsante e nascosto dell’anima locale. Bacurau inizia con un’immagine dall’alto – una sorta di soggettiva stellare – che ci racconta di un Sud America fitto di luci con al centro un’enorme zona d’ombra, il Brasile. In mezzo a quel buio, da qualche parte, c’è Bacurau, dove la bella Teresa sta tornando per assistere al funerale della nonna. Un luogo altro, alieno, dove ancora convivono le parti rimosse di un paese in corsa dissennata verso la modernità: quella rappresentata dal viscido politico che saltuariamente si manifesta portando viveri e rifornimenti, con l’atteggiamento di un assistenzialismo cieco completamente immemore delle proprie radici e delle altrui ragioni.

Ma a Bacurau non ci si arrende, si manifesta un attaccamento a terra, affetti e tradizioni che sa trascendere il tempo. Il vero combattimento, suggerito nella prima parte del film e via via sempre più manifesto, è tra la vita e la morte, tra la sopravvivenza e l’oblio, tra il diritto di stare al mondo e il rischio di venirne estirpati. Mendonça Filho e Dornelles costruiscono nella presentazione di luoghi e personaggi una sorta di antropologia magica, descrivono caratteri e liturgie, si immergono in una realtà autonoma e autoctona, capace di mostrare una tenacia implacabile alle pressioni di un contemporaneo sempre più distante e anaffettivo per poi, nella seconda parte descrivere l’assedio omicida di una minaccia esterna a cui reagire con ferino e orgoglioso spirito di sopravvivenza, risolto in un bagno di sangue. È qui che Bacurau mostra qualche crepa: l’assalto dei gringos (comandati da Udo Kier, ai limiti della caricatura), descritto con lisergica lucidità, mostra un sottotesto politico fin troppo esplicito, denuncia la collusione tra il potere locale e un neocolonialismo assassino senza ragioni né mandanti, ontologicamente feroce. I margini sfrangiati del racconto, che intelligentemente tracimano i generi (il western, il thriller, l’horror engagé con echi di Cinéma Nôvo, il banditismo versione cangaçeiro), si accumulano con minore precisione trascolorando in un massacro vendicativo allo stesso tempo liberatorio e pretestuoso. Lo stile di Mendonça Filho e Dornelles è fatto di carrelli ed esplosioni di montaggio, di singhiozzi e pacificazioni, e non sempre l’equilibrio – anche a causa di una dilatazione forse eccessiva dei tempi narrativi – riesce a contenere l’ambizione onnivora di un film allo stesso tempo distopico e dolorosamente aderente alla deriva del Brasile contemporaneo di Bolsonaro. Bacurau è un esperimento sfacciato e coraggioso, a volte silenziato dalla bulimia dei suoi autori, disposti a virare in esagerazione lo spirito metaforico e grottesco rischiando di nascondere il desiderio – purissimo e inattaccabile – di restituire una voce agli irriducibili reietti del proprio paese.