Quello che immediatamente colpisce rivedendo Il misantropo di Molière, pièce del 1666, è la sua sconcertante attualità. Le dinamiche dell’adulazione, l’ipocrisia, le finte amicizie a cui si oppone senza mezzi termini Alceste sono ancora più efficaci nell’epoca in cui i social hanno preso il sopravvento e l’amicizia si dà e si chiede a perfetti sconosciuti. Lo ha ben chiaro la regista Monica Conti, qui al suo quarto incontro con il drammaturgo francese (dopo aver messo in scena Medico per forza, Dispetto d’amore e Le intellettuali) che attualizza la commedia facendo indossare ai suoi attori non merletti e trine, ma eleganti abiti senza senza tempo. Un adattamento particolarmente riuscito, che si basa sulla traduzione di Cesare Garboli, in cui la stessa Conti compare come una sorta di testimone muto, una pianista che viene costantemente interrotta, e che osserva dall’esterno le umane debolezze. Azzeccato il cast di attori molto affiatato, composto da Roberto Trifirò, Stefano Braschi, Monica Conti, Flaminia Cuzzoli, Giuditta Mingucci, Mauro Malinverno, Stefania Medri, Nicola Stravalaci, Antonio Giuseppe Peligra. L’abbiamo incontrata.
Partiamo dall’attualizzazione del tuo allestimento…
Il misantropo è il frutto di un lungo lavoro di ricerca su Molière e, in particolare con Elsinor, di un dittico molieriano composto anche da Le intellettuali, andato in scena nella passata stagione, in cui ancora c’era un’ambientazione più classica, in costume. Qui invece doveva essere il fronte più scuro essendo un testo che apre la via al teatro moderno, ed essendo davvero universale, visto che tratta temi che sono scritti per l’oggi. Da questo punto di vista Molière è un veggente perché davvero fa un’analisi della nostra società.
L’Alceste interpretato da Roberto Trifirò è sicuro di sé, consapevole del suo ruolo, meno tragico di quello a cui siamo abituati.
Senz’altro. Va sempre tenuto presente che Alceste è anche un personaggio da farsa, come dice esplicitamente Filinte. È un ruolo molto stratificato, e la difficoltà è di non farlo apparire arrabbiato dall’inizio alla fine: non ha una corda sola, lui è anche un uomo intelligente, malinconico, beffardo, ironico, ma sbaglia nel dire, è assolutista, folle, contiene in sé il massimo della saggezza e il massimo della follia. Il modo in cui dice le cose lo fa diventare parossistico, ma sostanzialmente ha ragione.
Se così non fosse non si spiegherebbe l’attrazione di Célimene per lui…
Esatto. Ed è molto importante anche la differenza di età tra i due. Questo è il rapporto tra Molière e sua moglie Armande, tra un uomo di una certa età e una ragazzina che lo fa impazzire.
Tu sei in scena come spettatrice della vicenda.
Sì sono una testimone di quello che succede, impossibilitata a suonare perché tutti vogliono dire la loro. La mia presenza è dettata dal fatto che volevo anche un po’ rompere la struttura del testo e puntare su una triangolazione dal punto di vista reale, onirico, e di quello di una testimone che osserva la vicenda e che poi viene costretta a prendervi parte perché è lei che legge, nelle lettere, l’iniquità e la cattiveria degli uomini. Lo può fare proprio perché è fuori da questi giochi e ne è stupefatta.
Hai optato per una messinscena scarna che mette in risalto la parola e il gesto…
C’è un grande lavoro sul corpo e sulla parola da parte degli attori, si tratta di uno spettacolo molto impegnativo per loro. Ma volevo unire questi due aspetti.
Nel finale le foglie cadute sottolineano il trionfo della disillusione che prende il sopravvento su tutto.
Volevo ci fosse qualcosa che riguardasse la terra e il nostro ritornare alla natura dopo che ci siamo dibattuti nelle nostre relazioni, al di là dei vizi e delle virtù. In fondo siamo tutti accomunati dalla disillusione se non stringiamo relazioni vere.
Le foto sono di Sonia Santagostino.
Milano Teatro Sala Fontana fino al 27/11
Breno (BS) Teatro delle Ali 29/11
Manerbio (BS) Teatro Politeama 1/12
Casale Monferrato (AL) Teatro Municipale 20-21/12