“Guarda la carne”. “Respira la mia anima”. Sono due delle scritte-didascalie-testi “incise” nelle immagini di Padrone dove sei (nella sezione Onde del Torino Film Festival) di Carlo Michele Schirinzi. Un film-saggio, senza dialoghi, «umido affresco sull’atto e la visione masturbatoria» (nelle parole del suo autore). Un’opera potente, intima, pienamente, carnalmente/spiritualmente hard, nel senso dell’hard più vero, quello cinematografico migliore o che esplode da statue di donne in estasi, dai loro occhi (“lacrime di sperma”, si legge in un’altra didascalia), da dipinti, pagine di libri da toccare sfiorare lambire, da immagini di sante e beate (riferimenti che sui titoli di coda trovano un nome o un titolo nell’ampia e dettagliata enunciazione delle fonti). Un film fatto di lampi, immagini (in)decifrabili di mani che si masturbano, maschili e femminili, espanse nella loro manipolazione visiva, a rendere ancor più misteriosi, ma contemporaneamente “nitidi”, i pre-testi, da parte di un autore che è filmaker totale. Sue sono anche le frasi che appaiono e suoi sono i di-segni dei corpi nudi di donne in bianco e nero raccolti nel quaderno più volte filmato e che, sempre sui titoli di coda, Schirinzi definisce “taccuino masturbatorio”.
Padrone dove sei invita lo spettatore a mettersi in gioco, a sprofondare, a “naufragare” (al “naufragio” fanno riferimento, dando un moto circolare al film, la prima e l’ultima didascalia) in un magma visivo e sonoro, dove la colonna sonora, così come le immagini, è stratificata su vari livelli, evidenziati da netti stacchi/passaggi e, per contrasto/analogia, da un brano dei Roxy Music mostrato per intero e in 4:3 (da un loro concerto, tratto da You Tube, a proposito di fonti e contaminazioni che creano infinite sovrimpressioni), e che va infine a proseguire e terminare su altre immagini. Naufragio, e labirinto, in quest’opera in movimento e surplace fra Torino e Capo Di Leuca, esterni e interni dove transitano e sostano i corpi in spazi di terra acqua cielo, nella notte e nel giorno. Un film pieno d’amore e di dolore che sta “con”, e non “tra”, il cinema di Stan Brakhage (profondamente amato da Schirinzi) e Aleksandr Sokurov. Perché ogni inquadratura sa di carne, della carne e dei corpi trasudanti dall’opera immensa di un autore assoluto della storia del cinema come Brakhage (e, nello specifico, del suo corpo filmato mentre si masturba fino all’eiaculazione in Confession, del 1986), e di distorsioni visuali che richiamano l’atto del filmare del regista russo, soprattutto un suo film, Madre e figlio. Perché Padrone dove sei è anche narrazione di una relazione e separazione, che appartiene alla vita dell’autore e potrebbe appartenere alla vita di chiunque, di un distacco che si vorrebbe sempre rimandare, di un corpo di donna senza volto steso su un letto le cui mani e gambe fragili vengono accarezzate dalla mano di un uomo. Brakhage, ancora e sempre. Schirinzi pone fra le radici del suo film il Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, che il filmaker statunitense omaggiò in The Garden of Earthly Delights (1981).
Padrone dove sei chiede di aprire gli occhi là dove si sarebbe tentati di chiuderli, di “vedere” e “toccare” la morte e la vita: “the act of seeing with one’s own eyes”. Anche in quel corpo di donna, e anche qui per contrasto/analogia, ecco la carne, la pelle. La “memoria” di un corpo. Perché questo capolavoro schivo di Carlo Michele Schirinzi, da vedere e ri-vedere, è “memoria”, oltre che gesto, del desiderio. Corpi che agiscono e ricordano. In un film “muto” non per l’assenza di dialoghi, ma perché aderisce al sentimento del cinema muto, e dunque dell’hard, che “muto” è…