Il gioco amaro della verità

jeremy-renner-in-kill-the-messenger-movie-5Va ad insinuarsi in una pagina di Storia complessa e avvilente lo sguardo di Michael Cuesta con La regola del gioco, tratto dalla storia vera del giornalista premio Pulitzer Gary Webb che scoprì i traffici della CIA nel consentire o agevolare lo spaccio di cocaina negli Stati Uniti per finanziare i controrivoluzionari nicaraguensi anti-sandinisti. Un’indagine che procede velocemente e si snoda dalle prigioni del Nicaragua a South Central, L.A., alle stanze del potere di Washington, tra scoperte e illuminanti chiarimenti circa il facile flusso di droga a basso costo nei ghetti americani. Una storia “troppo vera per essere raccontata” (come si dice e si evince dal film), che finisce per distruggere la vita professionale del giornalista, screditato dalle invidie dei colleghi e minacciato dagli stessi servizi segreti. Gli elogi e i premi si trasformano in un mare di menzogne, nella macchina infamante che lo travolge letteralmente e trasforma quello che avrebbe dovuto essere un film di indagine giornalistica in un anonimo racconto ripetitivo e senza forza, incagliato nel nodo pubblico/privato del protagonista. Nessuna battaglia e nessuna passione. Cuesta resta al di qua dei fatti da lui narrati, incapace di caricarli di drammaticità e tensione. Mostra una lunga serie di particolari importanti senza davvero entrare nel gioco narrativo di una storia, invece, tanto incandescente. Perché, sebbene si scenda nei dettagli della vicenda, tuttavia si resta isolati da essa, come fosse solo evocata, senza entrare nel merito di un discorso critico, anzi, politico.

 

 

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Tutto accade nei primi minuti. Il ritmo è veloce come in tutti i film di questo tipo. Si scivola facilmente di scoperta in scoperta, e ad ogni angolo la posta si fa più grande, lo scandalo più urgente. Eppure nulla di tutto questo traspare dal film, che scorre, appunto, senza impennate, che non fa differenza tra notizia e notizia e non trova altro modo di legare sfera pubblica e sfera privata se non giocando con le metafore famigliari, gli allontanamenti e i riavvicinamenti tra marito, moglie, figli. La retorica è l’unica chiave di lettura e il film si inabissa sempre più in certi stereotipi abusati, tra denuncia e dramma, primi piani, silenzi, ellissi più o meno motivate. Il fatto è che Cuesta si limita a disegnare le linee generali di un discorso che, sia sul piano del racconto che su quello della forma, aveva necessità di approfondite e spericolate riflessioni, sommando invece di sottrarre, lavorando di dettagli e di strappi, talvolta, cercando anche il disequilibrio, piuttosto che assecondare un andamento mesto e pacato. Ci si aspettava, insomma, il cinema delle forti passioni, della rabbia, dei gesti esaltati da un’immagine che ricostruisce e suggerisce eventuali analogie, tra anticomunismo, terrorismi e governi opprimenti, di ieri e di oggi.