Disarmonie d’amore: Storia di mia moglie di Ildikó Enyedi

Per una irrazionalista conclamata come Ildikó Enyedi, i sette capitoli e un epilogo che compongono Storia di mia moglie (in Concorso a Cannes 74) sono materiale pregiato per scandagliare un’altra storia d’amore asincrono, perfettamente in linea con tutto il suo cinema. Per la prima volta la fonte è letteraria, dato che alla base c’è il più celebre romanzo pubblicato nel 1943 dal grande scrittore ungherese Milán Füst, e non stupisce che la regista abbia inseguito il progetto a lungo: in questa storia di sentimenti in perenne controcampo c’è tutta la tensione introflessa dei suoi personaggi, l’armonico disaccordo dei caratteri che produce un’empatia disorganica, cangiante, imprevista e imprevedibile. In più c’è quella ricercata incongruità dei presupposti e degli snodi narrativi che ha sempre caratterizzato il suo cinema, qui elevata a potenza nella definizione quasi illogica degli eventi di una storia d’amore spiazzata e sofferta. Il protagonista è Jakob, comandante di marina di lungo corso, uomo mite e solido che, per mettere ordine nella sua vita, vuole sposarsi e, sceso a terra decide di proporsi come marito alla prima donna che entra nel ristorante dove sta pranzando con un amico italiano (Sergio Rubini nei panni di un faccendiere che la sa lunga). Il destino gli pone dinnanzi Lizzy, che, avendo l’aria impertinente, vissuta e amabile di Léa Seydoux, non fatica a stare al gioco, ritrovandosi di lì a poco sposa del comandante.

 

 

I sentimenti sembrano sinceri, la felicità autentica, ma l’evoluzione procede per piccoli spostamenti progressivi del principio di realtà, sicché la Enyedi non tarda a innescare i suoi classici salti logici narrativi e spinge la storia in direzione delle sue solite incongruenze sentimentali: la routine delle prolungate assenze dell’uomo accendono la noia nella sposa, appare un viveur che ha l’aspetto infido di un impomatato Louis Garrel, l’ombra del sospetto si allunga su Jakob che a sua volta inizia ad avere problemi sul lavoro e soprattutto s’innamora di una passeggera, che ricambierebbe pure se non capisse che lui ama davvero Lizzy…Storia di mia moglie, insomma, è un melodramma che procede per topos strutturati secondo incastri incongrui: la Enyedi fa un cinema stratificato in filigrana, che va visto in trasparenza per cogliere il disegno complessivo. Non c’è coerenza drammaturgica ed emotiva, tutto è spiazzato rispetto alla congruenza degli eventi. Ma se questo meccanismo le consente in generale di realizzare film magnifici nella loro assoluta libertà espressiva, in Storia di mia moglie il miracolo non le riesce del tutto: le quasi tre ore pesano un po’ sullo spettatore, l’armonia distonica appare un po’ meccanica, si percepisce troppo l’impianto produttivo internazionale (in coproduzione c’è anche l’Italia) nella tenuta del casting. Resta però un film attraversato da una fluidità magica che articola una irrazionale mestizia nei caratteri, un sentimento di decadenza che avvolge la gioia dell’amore, un impulso a cedere al dubbio, un fascino dell’ombra e della tristezza, una netta incapacità di vivere concretamente gli eventi e le emozioni, che probabilmente ha molto a che fare con il contesto storico in cui libro e film sono ambientati.