Un presente fragilmente intrappolato nella Storia; i fili della finzione che s’incrociano con quelli della cronaca; un film che scivola tra «cuore e militanza», come le vite nelle case e nelle strade di Cité Gagarine; l’amore e la resistenza di Youri (l’esordiente Alséni Bathily) e Diana (Lyna Khoudri) dentro un racconto che nasce sotto il segno del realismo e muta sotto quello del fantastico; Denis Lavant che occupa una manciata di fotogrammi ma è sintesi di cinema. Gagarine – Proteggi ciò che ami è stato girato nell’estate 2019, ai margini temporali della demolizione del complesso alloggiativo Cité Gagarine, sorto per volere del Partito Comunista nei primi anni Sessanta a Ivry-sur-Seine, nella “cintura rossa” che stringe la capitale francese. E parte proprio da quel tempo, il film diretto da Fanny Liatard e Jérémy Trouilh (coadiuvati alla sceneggiatura da Benjamin Charbit), dalle immagini vere dell’inaugurazione della Cité nel ’63 alla presenza proprio di Jurij Gagarin, sovietico, cosmonauta, l’uomo – il primo – dello Spazio, accolto strepitosamente dalla gente. Un vero e proprio mondo, come altri simili sorti all’epoca in nome di una visione destituita per sempre poi da altri giri che gli eventi globali, la politica e l’economia hanno fatto.
È un’opera di rabbia, questa girata dai due registi – e peraltro anticipata da un omonimo cortometraggio qualche anno prima – ma senza essere rabbiosa, piuttosto sostanziata di una rabbia gentile, piana, di un’invisibile, reale e immaginata, pastosa memoria viva, emotiva, sensibile. Come la memoria del sedicenne Youri – figlio di una madre che da poco lo ha abbandonato e di un padre scappato molto presto – che con la sua casa, la “sua” gente, ha un rapporto solidale, ma soprattutto morale. Un ragazzo che si chiama come l’astronauta comunista, che trasformerà ciò che resta della sua abitazione in un’astronave, che vuole viaggiare tra la periferia di Parigi e quelle dello spazio; agogna il cielo e le stelle ma soffre di vertigini. L’amore con Diana lo allenerà al volo in questo film teneramente affollato di figure e poi malinconicamente solitario, dopo ancora pronto a modellarsi in altro, a riscrivere sottotraccia le proprie coordinate; un’opera che poteva essere un documentario o una storia drammatica e invece tocca la favola; che poteva essere un tema e invece è un luogo; un lavoro che guarda allo Spazio ma soprattutto traccia plasticamente lo spazio, lo attraversa, lo crea, lo inventa. E quando il protagonista – rimasto ormai solo mentre tutti gli altri abitanti di sempre sono andati a vivere altrove perché la demolizione del complesso edilizio è certa e prossima – sfonda a martellate la parete che divide due appartamenti è in fondo quasi come se assistessimo alla demolizione della parete tra il set e la realtà, come se non fossimo più di fronte a Youri, ma a all’Alséni Bathily che lo interpreta, figlio di un padre – raccontano i registi – che a Gagarine ci ha davvero vissuto. Fino a un finale che forse è infantile fantascienza, forse un improbabile miracolo, forse un sogno che solo al cinema può esistere: quindi è tutto vero.