Nei primi giorni della 72esima Mostra del cinema di Venezia sono le sezioni collaterali al concorso ufficiale a brillare. Ad aprire Orizzonti il bel Un monstruo de milcabezas del messicano Rodrigo Plá, mentre fuori concorso colpisce Spotlight, quinto film di Tom McCarthy, dedicato alla storia vera del gruppo investigativo del Boston Globe chiamato Spotlight, che nel 2002 (proprio dopo l’attentato alle Torri Gemelle) vinse il premio Pulitzer per l’inchiesta legata agli abusi sessuali perpetrati dai preti cattolici a Boston e, più in generale, in Massachusetts. Una storia intricata che si espande fino a coinvolgere l’intero sistema, fatto di avvocati, cardinali, vittime, politici, tribunali, giornalisti e gente comune. Una macchia che si apre sotto i nostri occhi e prende forma, anzi, la perde, perché l’attenzione di sceneggiatori e regista, in questo film, si è focalizzata soprattutto sulla sorpresa di ciascuno dei protagonisti di fronte ai frammenti di verità che si vanno rivelando, fino a disegnare una sorta di mappa ideale, frastagliata e tentacolare, una contaminazione silenziosa e subdola di cui non avremo mai il controcampo. Un’intuizione quasi casuale e tutto inizia, e travolge le vite dei giornalisti, anche se al loro privato viene riservato solo qualche accenno, funzionale proprio al lavoro sulla “profondità” verso cui tende ogni immagine e ogni azione. Tutti a cercare prove, dimostrazioni, indizi evidenti da confrontare e mettere alla prova, tutti a scambiarsi conoscenze e scoperte, parole e silenzi. Si costruisce così, una fitta rete di comunicazioni, si creano raccordi saldi tra gesti, pensieri, immagini ed effetti, appunto, come nei film più solidi, perché solido è il punto di partenza.
L’intreccio di Spotlight, esattamente come Un monstruo de milcabezas, si costruisce a partire dalle prove concrete, dai documenti che dimostrano e informano. La corsa è frenetica, certo, ma non al punto da sacrificare la precisione per il ritmo. Non si perde mai l’orientamento in questa storia corale e lineare al tempo stesso. Non occorrono digressioni o ellissi. Basta seguire il filo di una ricerca ottusa. Il contrario dell’ossessione e della manipolazione (altre volte necessarie ed efficaci al cinema). Qui si segue la logica dei primi piani, che altro non è se non il meccanismo della messa in scena di attori straordinari (Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber) efficacemente correlati tra loro. Difficilmente si assiste a tanto equilibrio, risultato di una scrittura minuziosa ma non meccanica, e di una scelta di sobrietà assoluta e vincente. Tutto sta negli sguardi assetati di verità dei personaggi, nella dignità di parole che non cercano l’effetto o il pathos. Come quando le vittime si raccontano con dolore e la macchina da presa cerca strade secondarie per mostrare quei volti sofferenti. Non serve andare troppo vicini, né sovraccaricare gli attimi di dramma. Come un giornalista, che si attiene ai fatti, così McCarthy resta legato alla sua linea di semplice accumulazione di informazioni per lascare allo spettatore il compito di rielaborare tutti i dati in un incisivo controcampo. L’effetto è dirompente. E resta a lungo nei pensieri.