La compostezza e l’equilibrio in Dieci minuti, di Maria Sole Tognazzi

C’è una studiata compostezza nella messa in scena del film di Maria Sole Tognazzi, come se fosse necessario trovare un equilibrio che sia anche equidistanza dalle cose, dalla pura partecipazione agli eventi. Il dramma borghese che si consuma nella storia riguarda Bianca (Barbara Ronchi) che dopo la burrascosa separazione dal marito Niccolò (Alessandro Tedeschi), che non sopporta più l’egocentrismo patologico di sua moglie. Tutto a causa di una silente depressione che era stato già causa di un tentativo di suicidio. Seguirà l’incontro con la spregiudicata sorella (Fotinì Peluso), nata da una relazione adulterina del padre, e dopo la terapia con la dottoressa Brabanti (Margherita Buy). Una terapia che prevede di fare ogni giorno, per dieci minuti, qualcosa che non si è mai fatto, superando inibizioni e barriere. Un incipit di nuova vita. Il tema del film, il suo baricentro, è proprio quello di spingere verso un oltrepassare le barriere, superare i legami che tengono la protagonista legata ad una immagine di sé limitata ad una specie di perbenismo stucchevole. Il suo contrappasso è proprio Jasmine, la sorella scoperta nel tempo, del tutto opposta a lei e perfino troppo spregiudicata nei rapporti d’amore e nelle relazioni sociali. È proprio in quest’ottica che il film appare come trattenuto dentro una invisibile gabbia e le sue intuizioni di una psicologia femminile spesso fragile nel rapporto d’amore, incapace di valutarne le possibilità adattandosi ad una forma ricattatoria della malattia, in altre parole queste potenzialità sotterranee, che avrebbero potuto essere riportate in superficie con un differente approccio, si disperdono in quel tentativo di mostrare un equilibrio della scena e del racconto contro ogni disequilibrio psicologico del personaggio, in una antinomia che sembrava necessaria e che invece finisce per sottoutilizzare il soggetto, la storia, i personaggi.

 

 
Tratto da un romanzo di Chiara Gamberale, Dieci minuti è in parte un’occasione perduta in quella ricerca di spessore dei personaggi per un film che bada al suo profilo intimo e psicologico, che lavora essenzialmente sul riaccomodare i sentimenti anche verso se stessi, in quella ricerca di un benessere che non è farmacologico, ma di lavoro su sé stessi. Sono tutti tratti che fanno capolino nel film, ma restano ingabbiati dentro una scrittura che è perfino fin troppo composta, così come il personaggio di Bianca, che Barbara Ronchi, lasciato da parte il piglio delle sue precedenti interpretazioni, ci restituisce ad occhi bassi, dimesso, che comincia a vivere solo nell’ultima scena. Identicamente si dica per l’inedito ruolo affidato a Margherita Buy, qui decisionista e sicura di sé. Se il film fosse stato fatto dieci o quindici anni fa il ruolo di Bianca con le sue incertezze e i suoi inciampi sarebbe stato perfetto per Buy che qui, invece, sembra guardi un personaggio che le appartiene per storia attoriale e caratteriale.

 

 
Il film tutto al femminile di Tognazzi purtroppo si perde un poco, proprio in quell’atto del ricercarsi in quell’equilibrio al quale ognuno di noi aspira. Di contro vi è che il film apre una finestra, stretta ma la apre, sul tema di una solitudine pervasiva che è all’origine della malattia di Bianca. Nel film, come in una specie di prolungato lockdown, si respira una pesante aria di solitudine che sembra pervadere ogni personaggio e ogni situazione e diventa esemplare, in quest’ottica l’inquadratura dall’alto della casa di bianca e Niccolò che nel suo recinto si tiene lontana da ogni altro edificio, dalla città e da ogni contaminazione. Lavorare anche su quello partendo, da questa bella sintesi che l’immagine aveva offerto, sarebbe stata una bella intuizione anche solo per dieci minuti.