La morte è il palcoscenico eterno, il campo di battaglia il cui possesso conferisce il potere sulle anime. Chi ha la morte, ha il dominio!
L’uomo e la morte, 1951, Edgar Morin
Il film di Teemu Nikki induce a più di una riflessione, del tutto avulsa perfino dalla sua natura di commedia nera. Il cinema scandinavo da tempo ci ha abituato, proprio per il coraggio – peraltro qui determinato da ragioni personali – di sapere affrontare, sebbene con una trasversalità e con una finta ironia, il tema e soprattutto l’idea della morte in uno scenario sociale che li rimuove. Il film del cinquantenne regista finlandese non si discosta, nonostante la profonda e ironica verità del titolo, da quella traccia pensosa e per certi versi plumbea che quella cinematografia ci ha insegnato a riconoscere dentro una più larga tragedia che prevede al suo centro l’inadattabilità dell’uomo in un mondo che diventa sempre ambiente ostile e raramente accogliente. La severa forma drammaturgica di tutto il cinema di Aki Kaurismäki, ad esempio, spinge in quella direzione con le sue assurdità metaforiche e la nuda povertà della sua messa in scena. È per queste ragioni che forse La morte è un problema dei vivi ci pare conservi un valore ideale maggiore del suo peso artistico, cioè sia più utile a offrire spunto per entrare a pieno titolo in una riflessione che ha occupato filosofi e pensatori, piuttosto che per tutto il resto che di importante il film pur possiede. Un resto che non è per nulla privo di valore, anzi i temi che il racconto propone sono coniugati con quella amarissima ironia che si colora di speranza in un finale che resta l’ultima luce alla quale guardare. Il film racconta di Risto (Pekka Strang), titolare di una agenzia di pompe funebri. È rovinato dal gioco d’azzardo e questo suo vizio ha irrimediabilmente deteriorato il rapporto con la moglie, che lo tradisce con un collega di lavoro, e ha messo in crisi anche quello con il figlio ancora bambino. Risto ogni tanto si fa aiutare nel lavoro da Arto (Jari Virman) il suo vicino di casa. Arto, che lavora in un asilo infantile, a causa di un piccolo incidente nel parco dove i bambini giocano, scopre di non avere che un piccolo residuo di cervello. È un uomo senza cervello. Il loro è quindi l’incontro di un uomo senza cuore con un uomo senza cervello, come sottolinea lo stesso regista.
Risto viene assoldato da una signora che, in un antro infernale insanguinato e squallido, vive scommettendo sulla morte dei disperati che si rivolgono a lei per giocare alla roulette russa e tutto viene ripreso e mandato in streaming per gli appassionati scommettitori. Risto e Arto recuperano i cadaveri e li smaltiscono facendo sembrare il tutto ogni volta un suicidio. La svolta del finale forse salverà qualcuno, ma non potrà risparmiare l’altro. La sintesi della trama riflette quella disperazione dentro la quale opera il film e insieme l’ineluttabilità di un certo destino e la fragilità di ogni valore che sembra frantumarsi davanti all’idea di una pacificazione eterna. È necessario essere chiari, Teemu Nikki non indulge in scelte metafisiche alla Bergman o alla Dreyer entrambi registi che sulla morte tanto hanno profondamente ragionato. Nikki assume l’evento finale nella ineluttabilità, nella quasi freddezza dello sparo, nella ripulitura di quanto è avvenuto. È in questo impianto generale che il film mostra la sua gelida consapevolezza della morte come eventualità dello spettacolo, per parafrasare le parole di Morin. Il vero tema sembra essere quello di una esistenziale e irrisolvibile disperazione e il suo titolo riconsegna ai viventi ciò che degli scomparsi resta. Una ben poca e povera eredità. Sotto altro aspetto, sembra davvero che nei tempi che viviamo, dove la morte diventa solo cronachistica contabilità in un atto tanto collettivo da costituire rimozione progressiva, ci sia davvero l’avverarsi dell’affermazione del titolo sotto un profilo materiale che prescinda da ogni valore umano e da ogni dissoluzione di un patrimonio irripetibile.
Quello stadio sembra essere superato e, dunque, la spettacolarizzazione della morte, in quell’evolversi (involversi?) della comunicazione che sembra richiedere per essere consumata sempre un grado superiore di spettacolarità, per diventare indispensabile e indispensabile e quindi oggetto di domanda, non ha mai cessato di esercitare un segreto fascino. Lo aveva già capito Bertrand Tavernier quando nel 1984 diresse un film essenziale che era La morte in diretta. In fondo Ulla, la donna che gestisce l’affare della roulette russa, possiede il palcoscenico dove si consuma l’ultimo atto di quella finitezza che appartiene a tutti, esercitando il dominio di cui parla Morin. È in questa accezione che supera forse perfino le intenzioni che il film del regista finlandese coglie verità disseminate nel nostro quotidiano che conosciamo. Coglie, in un mondo piuttosto avulso da ogni emozione, quelle che portano ad una perdita del piacere di vivere ad una consapevolezza estrema di un vuoto, come la zucca vuota di Arto, che sembra prosciugare di senso perfino il finale che farebbe presagire ad una fragile rinascita. Ancora una volta il cinema scandinavo si mostra nella sua nuda apparenza mostrando più di quanto ci faccia vedere e questo è già un bel risultato.