Credere nei miracoli: a Rotterdam54 Wind, Talk to Me di Stefan Djordjevic

Credere nei miracoli. Dove l’accento però non cade tanto sul miracolo quanto sull’atto di saper credere. Aver fede, ovvero, fiducia nella capacità della vita, della natura, della realtà di rispondere alle speranze, alle aspettative, alle attese: questione di tempo, pazienza, ascolto… Praticamente tutto ciò che significa fare cinema, se si intende per questo cercare un modo per stare nella realtà, nel mondo: il proprio mondo e anche quello degli altri. Prendete Stefan Djordjevic, filmmaker serbo trentaseienne: progetta di fare un film sulla madre malata, ma il tempo (le) manca e al figlio non resta che disinnescare la propria sofferenza sospingendo il suo bisogno di filmare nello spazio più intimo e comune della sua esistenza. Quello dell’intera famiglia: la nonna e il nonno, fratello e sorella e poi anche i nipoti… Tutti partecipi con commovente immediatezza, riuniti da Stefan nella casa edificata attorno a un camper in riva al lago in cui sin da bambini hanno trascorso le vacanze e dove ora tornano per l’ottantesimo compleanno della nonna. E per portare a compimento quel film sulla madre, che il tempo non gli ha concesso di terminare. Nasce così Wind, Talk to Me, la sua opera prima, vista nella Tiger Competition di Rotterdam54: film di una immediatezza emotiva assoluta, capace di gestire lo smarrimento dinnanzi al dolore con una lucidità incredibile.

 

 
La lezione di cinema più importante Stefan l’ha avuta dalla madre, mentre la filmava e attendeva che il vento offrisse una folata che non arrivava. Bisogna avere fiducia nei miracoli, dice la donna, devi parlare col vento ed essere disposto ad ascoltarlo… Chiedere alla realtà di esserci, interloquire con essa, sentirla: il cinema che Stefan Djordjevic fa nasce da questo contatto immateriale con il mondo, cerca il dialogo con gli eventi che filma una volta che la madre, al di là di quella singola essenziale ripresa, non c’è più. La camera insiste sullo spazio, posizionata a riprendere il tempo di pose a grado zero, dove non è l’accadere a decidere la relazione tra filmabile e filmato. Un po’ come con la cagnetta che irrompe nel film tagliando la strada all’auto di Stefan: si tratta di creare la fiducia necessaria a che le cose si dispongano sulla scena con la stessa naturalezza con cui si offrono i familiari all’obiettivo di Stefan: casting domestico di incredibile efficacia, totalmente naturale nel suo stare in scena prescindendo da qualsiasi posa didascalica.

 

 
Il superamento del dolore resta la trama intima di una tessitura narrativa e filmica che non slabbra mai la naturalezza della posa in opera. Il set dell’infanzia sul lago crea un guscio protettivo che però non innesca mai illusioni nostalgiche: Wind, Talk to Me non è un film sul tempo perduto e sugli affetti mancanti, tanto quanto non è un film sul tempo presente, sull’esserci e sulla relazione familiare. È piuttosto un film sull’attesa del tempo che si relaziona con il tempo concluso della madre, in un piazzamento progressivo dell’autore rispetto al proprio tempo, all’impazienza del filmare, al discernimento tra ciò che si attende e ciò che accade. E ci si imbatte in momenti di inattesa sensibilità, in accensioni ironiche, in accessi d’ira o cedimenti alla delusione, anche se Stefan Djordjevic non è uno che cerca un cinema in presa diretta, lavora con molta attenzione sul setting, sulla disposizione della macchina da presa rispetto alle proprie intenzioni e a quelle dell’accadere. Wind, Talk to Me ha una qualità cinematografica sorprendente e assoluta, che interloquisce straordinariamente con l’immediatezza delle intenzioni e la flagranza delle situazioni.