La nuit se traîne. La notte si trascina. E lo fa mentre una canzone di Petula Clark (La nuit n’en finit plus, già in Due giorni, una notte dei Dardenne) scava un solco profondo, rimescola ancora le carte, ricamando e rinnovando per contrasto la mappa emozionale del protagonista, la geografia confusa del suo sentimento, in un film che il regista Michiel Blanchart, belga, classe 1993, al suo lungometraggio d’esordio (Night Call il titolo internazionale passato anche in Italia), dissemina di trappole, fughe, tradimenti, ritorni, tracce sparse di identità rotte o sviate, destini che smettono di essere paralleli e s’incrociano, pulsanti istinti di sopravvivenza e contundenti dilemmi morali. Mady (Jonathan Feltre), giovane nero di poche parole, indole mite e innata gentilezza, si paga gli studi lavorando di sera come fabbro, apre le porte delle case di cittadini distratti attraversando le strade di Bruxelles a bordo di un’auto con in sottofondo la musica amata dalla madre.

Dopo un altro intervento, ecco una nuova chiamata da parte di una ragazza che dice di chiamarsi Claire (Natacha Krief) e di aver dimenticato le chiavi dentro il proprio appartamento. Una volta che Mady aprirà quella porta le cose non saranno più le stesse: da qui comincia la sua notte irripetibile, allucinata, violenta, di sudore e sangue, alle prese con una banda criminale capeggiata da Yannick (Romain Duris), pronto a tutto per ritrovare quello che ha perso. Tre personaggi che sono un triangolo: di motivazioni, di vissuti, di storie, di scelte, di segni ora suggeriti ora sottratti allo spettatore, ma Blanchart dimostra mano felice nel dosaggio e nella distribuzione dei dettagli, degli elementi narrativi, drammaturgici, psicologici. Intanto, ininterrottamente, di più, progressivamente, le proteste del movimento Black Lives Matter infiammano la città, si fanno basso continuo del film, dentro e fuori campo, si intrecciano indirettamente ma inestricabilmente con il destino di Mady e con quello degli altri personaggi. Del resto, sono proprio le immagini televisive delle violenze e degli abusi della polizia nei confronti della comunità nera le sliding doors che consegneranno a Mady una lucidità inaspettata in un momento complicatissimo (e qui, come altrove nel film, il politico del film dirompe, assale le coordinate, i moti della narrazione).

Night Call è cinema di genere in torsione nervosa dentro la cappa asfissiante della realtà, dei movimenti del tempo presente e delle inestricabili, potenti tensioni che lo punteggiano; il genere come forma mai ferma, il thriller e l’action qui sono declinazioni, disfunzioni nel rapporto tra l’individuo e la società, deformazioni di un reale che è spettro e corpo del film. Mady è, senza volerlo, la scheggia impazzita che infrange l’immaginario, un racconto di formazione dirottato, un eroe piccolo piccolo e improbabile. Blanchart dichiara di avere modelli come Duel, Collateral, Training Day ma insegue un proprio sguardo, la macchina da presa inquadra Bruxelles quasi fosse New York e insieme ne cerca il cuore oscuro, l’anima nera, come in un noir. La città, gli spazi, i luoghi sono polpa cinematografica in purezza; le scene all’interno del bordello, della metropolitana, della discoteca, girano energiche dentro un cinema atletico e viscerale che non si risparmia e che però, al contempo, non eccede, perché sempre alla ricerca di una propria misura, di un proprio tempo, di un proprio attrito con la materia che racconta. Ecco perché lo stile non resta ingabbiato nell’esercizio e si fa piuttosto terreno da esplorare; la fotografia di Sylvestre Vannoorenberghe non abbraccia la storia ma i suoi molteplici sensi, il montaggio di Matthieu Jamet-Louis è un orologio ad alta precisione. Cinema inquieto fino alla fine, fino al termine della notte, fino al mattino dei destini nuovamente incrociati, e del reale e dei suoi segni che ancora una volta contagiano, sporcano, ridefiniscono la finzione e i suoi punti di fuga.


