Il primo assunto è la mobilità assoluta: Presence è un film costruito sulla dislocazione mobile della macchina da presa, uno sguardo che percorre e persegue lo spazio freneticamente, libero e prigioniero allo stesso tempo, curioso come un bambino, irascibile come un adolescente, timido come uno sconosciuto che arriva inatteso. Il secondo assunto è la dinamica concentrazionaria, che contraddice la mobilità di cui sopra, anzi la contiene, ne limita l’istanza un po’ prepotente e invasiva, la regola imponendole un perimetro, quello delle pareti della casa, al di fuori del quale non può andare. Il terzo assunto è la disincarnazione dello sguardo, che smaterializza il criterio basico del POV in cui tutto si svolge lungo l’asse meccanico che unisce il punto di vista e il punto visto: in Presence è l’assenza a dominare la materia del film, la sua prassi narrativa, tutto accade dinnanzi a questo sguardo ubiquo che sino alla fine non ha identità. Un horror? Macché… Se così fosse imporrebbe ragioni, opporrebbe una struttura mitica, costruirebbe una narrazione sospesa tra passato e presente.

Presence è piuttosto un film sul qui e ora, sull’immanenza gratuita dell’esserci, del ritrovarsi gettati in un posto sulla terra, in un interstizio dell’esistere. Come tutti i film di Steven Soderbergh, Presence è un film che normalizza l’eccedenza del senso rispetto al sentimento, cristallizza la logica di personaggi che vivono in astrazione dalla realtà: è così sin da Sesso, bugie e videotape ed è stato così in un po’ tutte le tappe del suo cinema. Presence ha quasi una forma paradigmatica, che attiene proprio il dispositivo assunto, quello del filmare l’intera storia attraverso lo sguardo collocato in un Point Of View mobile ma disincarnato, lasciando svaporare il criterio della ripresa in soggettiva individuata propria del cinema di found footage tanto quanto quello della soggettiva meccanica delle camere di sorveglianza. Soderbergh in Presence lavora esattamente sull’idea della presenza/assenza di una soggettività narrante in cui si incarna la mancata collocazione del film, il disallineamento di una storia che si adatta a una famiglia che quanto più cerca la propria unione, la coesione, l’identità rifondata in una nuova casa, tanto più sembra procedere per progressivi allontanamenti reciproci. Chloe e suo fratello Tyler occupano i vertici opposti di una mancata relazione che discende in linea diretta dalla distanza che separa la madre Rebekah e il padre Chris. Ognuno segue un proprio principio narrativo che è separato da quello degli altri per quanto sia apparentemente tenuto insieme dal legame familiare che si incarna per l’appunto nella casa in cui tutto accade. Chloe gestisce il dolore della morte di due amiche e incarna il malessere rimosso di tutti, attirando su di sé l’attenzione della presenza che staziona invisibile e (quasi sempre) impercettibile proprio nella sua stanza.

Tyler implode nell’ossessione del successo proiettato su di lui dalla madre Rebekah, che fa i conti con poco chiari e poco leciti impegni di lavoro, mentre Chris cerca di gestire il versante sentimentale e morale della famiglia. La Presenza aleggia sui drammi isolati in atto come una ratio destinata a tenere insieme tutti e a offrire una ragione: una forma di destino, che cadrà su uno dei personaggi e ne rivelerà la verità, la sostanziale natura. La chiave gotica della casa posseduta viene utilizzata da Soderbergh come principio fondativo di una narrazione che affida ai personaggi una libertà morale di cui sono artefici e vittime allo stesso tempo. L’imparzialità del dispositivo fondato sul POV corrisponde all’astrazione logica di un film che non cerca l’effetto enfatico, ma lo ottiene magistralmente nell’attimo della rivelazione finale, nell’immagine allo specchio che fa letteralmente e neutralmente accapponare la pelle, dissolvendo la forma dell’orrore. Liberando il dispositivo del punto di vista dal suo punto di vista obbligato…


