Smarrimenti indicibili: la classe media cinese in Breve storia di una famiglia di Lin Jianjie

È, quella di Lin Jianjie, esordiente nel lungometraggio, la Breve storia di una famiglia cinese, classe media cittadina, ovvero quella classe – spiega la sinologa Giada Messetti nel volume La Cina è un’aragosta (Mondadori, 2025) – furiosamente spazzata via da Mao Zedong e riemersa a seguito dei nuovi scenari avviati da Deng Xiaoping, fino a una crescita straordinariamente impressionante a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Una categoria sociale che le autorità, sovente, preferiscono chiamare «“strato di reddito medio” piuttosto che “classe media” per evitare l’associazione con concetti come “tensioni di classe” e “conflitti di classe”». Il rappresentante tipico di questa fetta della popolazione – sempre Messetti – «vive solitamente in città, è ben istruito, ha un buono stipendio. Consuma e viaggia, anche all’estero. Si sforza di creare condizioni di successo per i propri figli. […] Le sue aspettative sono molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle analoghe fasce delle società moderne di tutto il mondo: raggiungere una buona posizione lavorativa, sposarsi e avere dei figli […], accumulare ricchezza, comprare beni di consumo».

 

 

Una classe che – permeabile ai recenti effetti generati da un’economia nazionale in difficoltà (crisi immobiliare, riduzione degli investimenti dall’estero, invecchiamento demografico, disoccupazione giovanile…) e da un contesto internazionale e geopolitico in perenne stato di bruciante insicurezza – si ritrova oggi irrigidita in una «concorrenza sfrenata fin dall’infanzia per assicurarsi un buon futuro», alle prese con un «avvenire privo di certezze e stabilità». La Cina di Breve storia di una famiglia, la Cina di Lin Jianjie, anche sceneggiatore, si situa problematicamente in questo quadro, senza tentare di strapparlo, cercando piuttosto le tonalità più distanti, le gradazioni di significato meno evidenti, le ombre esistenziali che lo abitano, gli smarrimenti indicibili che lo sfumano. La pluridecennale politica del figlio unico appartiene al passato ma ha lasciato, scopriremo, segni profondi nel vissuto di questa benestante coppia interpretata da Zu Feng e Guo Keyu, biologo cellulare lui, ex hostess lei, ora casalinga, genitori di Wei (Lin Muran)… È un’altra storia di fantasmi, in fondo, nel profondo. Ma se in Presence di Soderbegh lo spettro che si aggira per la casa è l’occhio del cinema e la forma di una teoria del vedere (e del sentire) oggi, se – ancora – lo specchio di Presence è l’immagine in cui la famiglia non riesce a individuarsi, in cui non sa guardare e guardarsi, nel film di Lin Jianjie la presenza sempre più penetrante, sempre più (quasi patologicamente) interiorizzata e accolta, che mina gli equilibri familiari, aprendo le porte ad altri invisibili fantasmi, è quella di Shuo (Sun Xilun), origini umili, orfano di madre e vittima di un padre violento.

 

 

La famiglia è dentro un acquario, è sotto la lente di un microscopio, organismo da decifrare. È luogo del mistero, territorio dell’insoluto, zona liminale valicata da un corpo estraneo. È qui, e intorno a questo centro, che il film vuole giocare la sua partita, dentro un vortice programmaticamente ossessivo, è qui che puntella i suoi costrutti, i suoi spazi, gli zoom, i ralenti, i suoi montaggi e le sue metafore, i confini fisici e simbolici, le prossimità e le distanze, distribuendo geometricamente, fino alla perizia e alla raffinatezza efficacemente didascaliche, le atmosfere e gli umori che informano la narrazione. Le deviazioni psicologiche si fanno scansione millimetrica, i ruoli e le relative inversioni di questi si rincorrono, il thriller apparentemente concepito come involucro fragile che racchiude e cela le coscienze dei personaggi, come campo di ipotesi, rischia invece di impossessarsi del testo, stemperando l’incerto in una messa in scena dominante, schiacciante. Un film affascinante ma introflesso, che difficilmente riesce a fare delle sue creature delle figure aperte. Un’opera (che nel 2024 ha attraversato Sundance e Berlino, sezione Panorama, tra gli altri) senz’altro da accogliere ma che non riesce a liberare la sua politicità, a liberare ovvero il perturbante, tutti i suoi fantasmi.