Budapest anno zero: a Venezia82 Orphan di Laszlo Nemes

Il buco nero del passato avvolge ancora una volta il cinema di Laszlo Nemes: Orphan, il suo terzo film, giunge in Concorso a Venezia82 con il peso della storia ungherese messo sulle spalle delle memorie trasmesse al regista da suo padre. Il filtro dei ricordi di famiglia diventa traccia da seguire per ritrovare la storia condivisa del popolo ungherese, che nel cinema del regista di Il figlio di Saul e Tramonto è un po’ la linea portante. Questa volta siamo nella Budapest del 1957, le macerie della fallita primavera ungherese dell’anno prima contro il regime comunista occupano ancora la città, la polizia segreta si muove in cerca di sovversivi, la vita non è semplice per nessuno. Men che meno per Andor, ragazzino ebreo (troppo) cresciuto all’ombra del mito di un padre mai conosciuto e mai tornato dalla guerra, offertogli da sua madre Klara a risarcimento di una maternità in realtà priva di marito. Andor attraversa le strade di Budapest e si nasconde nel sottoscala del suo palazzo, dove si reca puntualmente per raccontare la sua giornata all’idea di quel padre che non ha mai conosciuto, rivolgendosi con una ritualità quasi arcana a una possente caldaia. Nemes cerca chiaramente la linea di un difficile equilibrio tra la ricostruzione storica, la dimensione trasognata dell’infanzia e l’impianto simbolico che gli permetta di elevare la narrazione a un livello superiore.

Nella sostanza però il film resta aggrappato al dissidio psicologico del piccolo Andor, destinato a implodere di fronte all’inatteso palesarsi di un uomo – un corpulento macellaio che si muove in sidecar – che vuole sposare la madre e dichiara di essere il suo vero padre. Questo provoca nel ragazzino uno spiazzamento tra le attese e la realtà che affossa il suo senso di appartenenza e lo spinge a un rifiuto radicale della realtà nel suo insieme. Il piano di slittamento tra la dimensione mitica della figura paterna elaborata da Andor nella sua fantasia e la presenza reale di quell’uomo che, per quanto docile e accomodante, risulta ai suoi occhi un estraneo usurpatore, diventa per Laszlo Nemes la leva per ricostruire in chiave simbolica il dissidio storico che ha attraversato l’Ungheria negli anni del blocco sovietico, sospesa sul doppio dissesto generato dalla guerra e dalla rivolta del ’56. Il film si muove dunque con andamento intimo e intenso, cerca una sua struttura simbolica tra le macerie dei palazzi, in cui un giovane rivoltoso si nasconde dalla polizia e dove Andor trova i suoi momenti di pace, e nell’ombra inquieta del sottoscala, dove il ragazzino costruisce una sua immagine di potere alla quale riferire gli eventi della vita sua e della madre. La fotografia (anche questa volta Nemes gira in pellicola) cerca un piano raffigurativo un po’ traslucido, questa volta sganciato dal dispositivo in soggettiva del cinema di Nemes, ma capace di stare in sintonia con la polarizzazione del film nell’ottica dell’infanzia tradita. Qua e là si incorre nel rischio di risultare un po’ lezioso, e nell’insieme Orphan non raggiunge l’intensità dei primi due film del regista, rimanendo prigioniero di un impianto un po’ prevedibile, che non trova mai uno slancio espressivo intenso e adeguato.