Un film sul silenzio e sull’intervallo, sospeso nello spazio di uno breve incontro, di uno stand-by in cui si gioca l’equilibrio della relazione, la trasparenza degli affetti… Father Mother Sister Brother, tre episodi, due per i genitori e il terzo per i figli: il nuovo film di Jim Jarmusch (in Concorso a Venezia82) transita attraverso il luogo dell’intimità per eccellenza – la famiglia – per giocare la partita tra verità e menzogna in un campo che si immaginerebbe tutt’altro che neutrale, ma che il regista trasforma in una scena quasi beckettiana, in cui la visceralità delle relazioni affettive viene appianata nel gioco impassibile dei primi due capitoli infine liberato nella simbiosi in astrazione empatica del terzo. La fissità è la chiave di accesso allo schema proposto da Jarmusch, l’immota (e ovviamente ironica) disposizione d’animo di tutti i personaggi in campo: Father parte da un cameracar che accompagna Jeff e Emily (Adam Driver e Mayim Bialik) nel percorso attraverso il nordest americano che li porta alla vecchia casa del padre, Tom Waits. La loro relazione, come tutto l’incontro, è trattenuta in una composta correttezza affettiva, in cui i dubbi della figlia sull’approssimativo stile di vita del padre dialogano con l’approccio rassicurante del figlio, che non manca di sostenerlo economicamente. Il padre appara la casa per l’incontro, non tanto mettendo ordine, quanto mascherando elementi e tracce della sua vita reale, per una visita che poi sarà tutta un equilibrio di buone maniere e silenzi imbarazzati, drink a base di acqua o di tè con cui chissà se è appropriato brindare, si chiede Jeff.

Ciò che si confà oppure no è il punto di equilibrio di un incontro in cui la neutralità è maschera delle menzogne che occupano la scena, tra sorrisi, abbracci e tempo che vola prima di un garbato saluto. Poi il padre può tornare alla sua vita reale, togliere la maschera dimessa del vecchio padre male in arnese e tornare a essere Tom Waits…Lo schema del secondo episodio, Mother, è invece quello opposto: qui la realtà si dichiara subito, è quella di Charlotte Rampling, madre very classy, raffinata negli abiti, un po’ scostante nelle pose, rigida nei sorrisi, forzatamente ordinata come la stessa casa che abita nel cuore di Dublino: scrittrice di successo, attende la visita annuale delle due figlie, la timida e semplice Timothea, interpretata da una quasi irriconoscibile Cate Blanchett contenuta in abiti un po’ zitelleschi, e la più vivace Lilith (Vicky Krieps), capelli rosa e attraversata da una vitalità che nasconde, agli occhi della madre, la sua omosessualità e uno stile di vita poco stabile. Anche qui il tempo della visita trascorre tra chiacchiere inutili, bugie palesi accettate per vere, pasticcini, brindisi inappropriati a base di tè e la silenziosa attesa di un Uber pagato a Lilith dalla madre. Infine il terzo episodio, Sister Brother, quello del doppio corpo, della comunione: qui la scena si libera dall’imbarazzo della relazione costruita a freddo, trovando piuttosto l’empatia, anzi la simbiosi dei gemelli. Skye (Indya Moore) e Billy (Luka Sabbat) si recano nella casa parigina dei genitori, da poco morti in un incidente aereo (che sia suicidio?), per svuotarla degli oggetti, ma soprattutto per scoprire tutto ciò che non conoscevano di un padre e una madre dalla vita eccentrica.

Qui è dove Jarmush gioca il tempo della verità, scrive la relazione tra i due fratelli sulla rivelazione dei genitori e sul gioco complice del tempo che trascorrono assieme in quella casa da liberare prima che la portinaia – interpretata dalla solita magnifica Françoise Lebrun – chieda loro dolcemente di andare via. La questione dello svuotare del resto non è secondaria, perché se in questo terzo episodio si respira è proprio perché il luogo della casa è da liberare dall’ingombro delle (infra)strutture familiari, degli oggetti, della presenza scomoda dei corpi, delle relazioni, dei vissuti, delle verità e delle menzogne. Tutto il film, nel suo insieme, cerca del resto la rima nella disposizione degli elementi scenici e drammaturgici, una geometria di incastri oppositivi tra i due primi episodi (con l’enjambement offerto dalla foto della Rampling che si intravede in casa di Tom Waits…) che si scioglie nella fusionalità visiva, sintattica, emotiva del terzo episodio. La sospensione del tempo, la permanent vacation che da sempre costituisce la metrica del cinema di Jarmusch, lascia lievitare la pulsionalità della relazione e dissolve i segreti, forse le stesse menzogne dei genitori scomparsi, lasciando i due ragazzi liberi in un tempo fluido, autorizzato a scorrere nella sua verità esistenziale, nel vuoto lieve e leggero. Lo stesso che di episodio in episodio hanno cavalcato i tre skaters che in lieve ralenti incrociano il cammino dei figli verso gli appartamenti dei genitori. Jarmusch sembra suggerire uno scarto generazionale che trattiene il mondo dei vecchi nella menzogna e libera progressivamente i figli. Ma soprattutto offre un’opera che scandaglia il silenzio della verità come fosse uno spazio vuoto, astratto, da riempire con gesti e parole di circostanza. Tutto il suo cinema confluisce in questa idea, cerca da sempre di scardinare la logica sintattica degli elementi emotivi, sentimentali, vitali e reali.



