Lavorare per scrivere: a Venezia82 À pied d’oeuvre di Valérie Donzelli

Paul Marquet è un fotografo di un certo successo. O, meglio, lo era. Per assecondare la sua ambizione – il suo bisogno – di diventare scrittore, Paul rinuncia a un guadagno mensile che si aggirava intorno ai 3000 euro (ma in alcuni mesi poteva essere molto maggiore) per dedicarsi anima e corpo alla sua nuova vocazione. Ma se l’anima poteva accontentarsi dei 250 euro mensili erogati dalla casa editrice mensilmente per i suoi primi romanzi, bene accolti dalla critica ma meno dal pubblico dei lettori, il corpo no: il corpo doveva trovare delle soluzioni. Lasciato da moglie e figli in cerca di un porto accogliente nel lontano Canada, Paul si trova a doversi reinventare e nel capitalismo avanzato e accidentato delle nostre città, l’unica soluzione praticabile sembra quella di una app che offre lavoretti assegnati attraverso aste al ribasso. Si smontano mobili e si tosano prati, si svuotano cantine e si riparano cessi per una manciata di euro, ché un guadagno plausibile non fa parte dell’orizzonte del nuovo precariato. Paul accetta la sua nuova condizione di sfruttamento e pseudo-povertà davanti allo sgomento di genitori e vecchi amici seguendo una sola e unica regola: non accetta lavori di mattina perché quel tempo è destinato alla scrittura, alla sua libertà emotiva.

 

 
À pied d’œuvre, settimo film della francese Valérie Donzelli, autrice interessante quanto discontinua, prende spunto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, ispirato alla propria scelta reale di vita. Il film di Donzelli ingrana con qualche inciampo e difficoltà, non riuscendo a conquistare un’immediata empatia con la deriva del suo protagonista, a prima vista uomo più confuso che convinto e fin troppo afasico nella giustificazione delle proprie ragioni. E invece, poco a poco, scena dopo scena, entriamo in un contatto sempre più profondo con questo personaggio placido e taciturno, che incassa le delusioni creative con spirito di abnegazione – non abbattendosi mai tanto da ripensare alle proprie decisioni – e le fatiche fisiche di una nuova e a tratti umiliante vita lavorativa con una delicatezza mai falsa, priva di ogni alone di vittimismo. Donzelli ci avvicina gradualmente alle ragioni più profonde di Paul fino a farcele comprendere: la dignità è un abito da non dismettere, l’obiettivo ultimo è quello di un riconoscimento intimo capace di andare ben oltre il semplice status sociale ed economico.

 

 
Donzelli conduce con mano questa atipica scalata al contrario, inquadra con sobrietà e affetto il suo protagonista, trova tempi e toni adeguati al racconto. Paul – un bravissimo Bastien Bouillon, che più asciuga la propria recitazione più riesce a colpire nel segno – diventa a suo modo un antieroe silenziato, pronto a pagare senza rimpianti il peso delle proprie scelte. E il suo adagiarsi in una nuova routine fatta di cicatrici alle mani, dolori alla schiena e annullamento di ogni parvenza vita sociale assume però il gusto della scelta consapevole, della riconquista di un proprio spazio privato. La sua educata ma fermissima determinazione è in fondo l’ingrediente principale del suo successo finale, comunque diviso tra un firmacopie e qualche umile lavoro da sbrigare, qualche cantina da svuotare, qualche elettrodomestico da aggiustare senza cedere un briciolo di dignità.