Una piccola storia di uomini, ma anche un grande racconto di Storia americana: è la vicenda di Tony Kiritsis, ricostruita da Gus Van Sant per il suo ritorno alla regia di un lungometraggio a sette anni dal precedente Don’t Worry. Presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2025, Dead Man’s Wire traccia letteralmente un filo fra passato e presente, infilandosi nei gangli del sistema economico, lungo meccanismi che allungano la loro ombra fino agli scandali del nostro quotidiano. Lo fa precipitandoci nella surreale crociata di Kiritsis, vittima di una truffa ordita (a suo dire) da una società di mutui e assicurazioni, che ne rapisce perciò il vicepresidente (nonché figlio del cinico proprietario) e si unisce a lui con un fil di ferro collegato anche al grilletto del suo fucile. Lo scopo, ovviamente, è ottenere giustizia, un risarcimento e persino le scuse per quanto ha subito. Pur nell’epoca pionieristica della spettacolarizzazione dei reati (siamo nel 1978), il caso attira le attenzioni dei mezzi di comunicazione di massa, dando il via a una triangolazione fra Tony, le autorità e due personalità mediatiche, il dj Fred Temple, “voce di Indianapolis” e l’inviata tv Linda Page, che vede nella vicenda l’occasione per ottenere finalmente lo scoop della carriera. Nell’illustrare ancora una volta una vicenda che mette insieme uso della violenza e attenzione mediatica (come già fu in Elephant), Van Sant alterna punti di vista difformi (la narrazione in oggettiva e i filmati a bassa definizione delle telecamere), che si fanno paradigma di una frammentazione della verità come elemento inafferrabile del presente.

In tal senso, un po’ tutti i personaggi sono contrassegnati da un’ambiguità di fondo che impedisce di incasellarne perfettamente i ruoli, a iniziare da un Tony tanto “fuori di sé”, sovreccitato e pronto a tutto, quando lucidamente consapevole della portata spettacolare del suo gesto. La sua figura è rinvigorita dalla performance spiritata di un Bill Skarsgaard che sembra il Pennywise di IT privato dei poteri e costretto a un gesto disperato. La composita geografia umana finisce ben presto per diventare anche trattazione dialettica delle iconografie stesse del tessuto sociale e economico americano: se è infatti facile il gioco mefistofelico riferito al “patriarca” M. L. Hall (un folgorante Al Pacino), più interessante è la figura di Temple, che rovescia di senso le classiche figure antagoniste della black culture radiofonica. Temple, insomma, non è il Super Soul di Punto Zero, icona controculturale che fa il tifo per la crociata di Kowalski fino a pagarne le conseguenze, ma è la perfetta pedina-ingranaggio di un meccanismo economico-spettacolare incarnato in una gerarchia che si guarda bene dal contraddire il potere, forte dei benefici economici ormai acquisiti. E, sempre per il gioco delle ambiguità, l’unica figura che Tony rispetta e considera amica, in quanto riconosciuta “anima” della città a tutti i livelli.

Usando il “cavo dell’uomo morto” come metafora di una necessità anche coercitiva di stabilire una connessione fra i vari punti sparsi del mondo, Van Sant riesce in questo modo a elevare una trattazione divertita a riflessione più complessa sullo stato delle cose in America. Un luogo (e una realtà globale) che sta ripensando i suoi rapporti di forza alla luce di dinamiche economiche violente cui dal basso si risponde con l’impatto altrettanto brutale delle armi. Il regista in questo senso è distante dal film a tesi, ma lascia comunque emergere in modo molto chiaro le sue preoccupazioni circa il ritratto generale. In questo modo riesce anche a far propria una vicenda già portata alla ribalta da precedenti adattamenti, come il documentario Dead Man’s Line, di Alan Barry e Mark Enochs, e la versione drammatizzata per il podcast American Hostage.


