Lo spunto di partenza è la vendetta e la volontà di Mamoru Hosoda di costruire attorno al tema una storia dagli echi shakespeariani. Nel mezzo entrano poi anche le sue passioni per i paradossi temporali e le realtà parallele, al punto che la Scarlet del titolo è una principessa, morta nel tentativo di vendicare il padre detronizzato, che si ritrova in un limbo dove potrà (e dovrà) portare a compimento la sua missione (nel luogo ci è finito infatti anche il suo nemico). Se il posto rispecchia una visione da Medio Evo europeo, tra principesse, cavalieri e duelli all’arma bianca, ad aiutare l’eroina ci sarà un personaggio del nostro presente, un infermiere finito in coma e che si è ritrovato pure lui fra le sabbie di quel purgatorio. I temi, insomma, ci sono tutti, a iniziare dalla classica protagonista femminile che nell’impresa cui si trova destinata dovrà innanzitutto confrontarsi con la sua identità, i desideri che la spingono e le motivazioni più profonde nascoste nel rapporto con il suo microcosmo.

E se Hosoda gioca comunque meno con i paradossi per dare più che altro forma a una quest più tradizionale, non di meno la commistione di un look europeo, fortificato dai riferimenti letterari, con la più classica estetica manga/anime (riassunta negli enormi occhi espressivi della protagonista) cerca di ritrovare quello stesso amore per gli ibridi che già avevamo imparato a conoscere in opere come Wolf Children o Belle. Allo stesso modo, Scarlet tenta di ampliare lo scenario attraverso una ricerca di toni che non si appiattiscano sulla semplice linearità del racconto di vendetta, tema che in sostanza ha la finalità del mero pretesto per portare avanti la storia, mettendo insieme qualche spunto ironico e una deriva melò più potente nella parte finale. Se l’investimento appare importante in termini produttivi (alle spalle c’è un colosso come
Sony/Columbia) e anche personali, con Hosoda che dirige e si fa anche carico della sceneggiatura, l’esito appare comunque deludente e poco ispirato. L’autore cerca di restare coerente con un’idea di cinema che sente molto sua, pur guardando a una spendibilità data dalla vicinanza con un filone contemporaneo di altrodove in bilico fra vita e oltre già abbastanza consolidato, si pensi a Your Name e Suzume di Makoto Shinkai, di cui riprende alcune invenzioni figurative, o Il castello invisibile di Keiichi Hara, senza dimenticare nemmeno Il ragazzo e l’airone del mentore Miyazaki. La progressione però appare fiacca, complice un ritmo non molto centrato e soprattutto una visualità compromessa dai cromatismi spenti di un limbo decisamente poco accattivante. Proprio l’aspetto visivo, da sempre molto curato nella cinematografia di Hosoda, compromette le migliori attenzioni, con un uso del digitale e del cel shading che rende figure e ambienti molto freddi e impersonali, determinando una distanza dal narrato cui l’agitarsi passionale dei personaggi non riesce a trovare rimedio. Scarlet in questo senso non ha né la tensione anarcoide del bimbo capriccioso di Mirai, né tanto meno la ricchezza figurativa e la complessità narrativa di Belle, risolvendosi in un passo falso cui anche il lancio in concorso a Venezia 82 non riesce a trovare rimedio.


