Dodici anni e nove film dopo il fortunato capostipite, è ragionevole affermare come un incantesimo la saga di The Conjuring sia riuscito a compierlo davvero: è diventata infatti la serie centrale per eccellenza nell’horror mainstream contemporaneo. Sia per il volume degli incassi di ogni nuovo capitolo, che per la fedeltà di un pubblico affezionato (in larga parte giovanissimo) e ormai pronto a identificarla come l’essenza stessa dell’horror contemporaneo, ideale per una serata a base di brividi e emozioni forti. Un modello dunque vincente sia sul versante produttivo che su quello estetico/narrativo. Lo ha fatto, si badi, nonostante partisse almeno con un paio di evidenti svantaggi: da un lato, infatti, il battesimo da parte di James Wan e la presenza nel cast di Patrick Wilson ha rischiato fin dall’inizio di farla apparire come un’emulazione/derivazione del precedente e fortunato Insidious (non bastasse l’attore in comune, anche le strategie estetiche, ritmiche e strutturali delle due saghe sono abbastanza simili). E poi c’è la scelta di concentrarsi sulle imprese dei coniugi Ed e Lorraine Warren senza occuparsi direttamente del loro caso più celebre, quello di Amityville (citato solo all’inizio del secondo film e verosimilmente espunto perché già parte di varie trasposizioni a sé).

Non è dunque una coincidenza se attorno al brand siano nate vere e proprie fazioni, tra chi lo ama incondizionatamente e chi (in modo legittimo e in larga parte fondato) lo accusa di aver creato un universo formulaico e basato su facili logiche di spavento, tipiche più di una strategia produttiva industriale che di una saga d’autore. Una sorta di Marvel Universe dell’horror, insomma. Lasceremmo invece fuori dalla contesa le accuse di aver legittimato le imprese di due specialisti del paranormale da molti ritenuti degli autentici ciarlatani, poiché è palese come l’intera saga non abbia pretese di legittimità storica e biografica. Da quest’ultimo versante, Il rito finale cerca in realtà di dirci qualcosa in più, entrando direttamente nel privato dei Warren: ne illustra infatti le dinamiche familiari, la voglia di ritirarsi per vivere una vita dedita agli affetti, ci lascia percepire il loro affiatamento umano prima ancora che professionale e ci mostra un Ed ormai compromesso dai problemi al cuore, mentre la giovane figlia Judy inizia a manifestare i primi poteri paranormali. Il tutto è legato a doppio filo sia a cosa accadde al momento della sua nascita, che al primo autentico caso affrontato dai genitori negli anni Sessanta.

Tutti nodi destinati a sciogliersi in quest’ultima avventura, presentata come una sorta di risoluzione finale della missione di una vita per l’intera famiglia. C’è dunque tutto l’armamentario che abbiamo già imparato a conoscere: la casa pregna di presenze malvagie (materializzate stavolta in un antico specchio), i salti sulla sedia, l’uso espressivo degli angoli bui e di architetture da gotico americano, i poteri medianici (ma confortati dalla rispettabilità della fede cristiana) con cui il duo cerca di scacciare il maligno, fino alla ventilata possibilità di gettare i presupposti per un simbolico passaggio di consegne ai figli – siamo pur sempre nell’era dei franchise infiniti, dove ogni fine rappresenta un nuovo inizio per un’industria insaziabile. In mezzo ci finisce Michael Chaves, ormai diventato quello che David Ayer è per Harry Potter, il classico regista tuttofare che confeziona in modo diligente sequel e spin-off vari (sono suoi quattro titoli sui dieci totali) e che qui cerca di imporsi con una regia più muscolare: inquadrature lunghe e al limite del piano sequenza e carrellate avvolgenti dal sapore quasi scorsesiano rivendicano infatti un punto di vista che vuole dire la sua, ma nello scontro con una vicenda ossequiosa dei soliti cliché finisce per apparire incongrua e poco pertinente.

Meglio fanno gli attori, in particolare i consolidati Patrick Wilson e Vera Farmiga, che anche dopo molti anni continuano a credere nel potenziale drammatico dei due guerrieri del paranormale, conferendo una buona gravitas a una formula altrimenti destinata a cadere nella banalità circense – ricordiamo che il demiurgo Wan ha in sé un certo amore per il grottesco, come ha dimostrato con l’ottimo Malignant. Se l’equilibrio delle parti denota perciò una certa indecisione e incapacità di uscire dai ranghi, nonostante alcune buone volontà, è la familiarità del tutto e la convinzione generale a costituire ormai il tesoro che la saga porta in dote per i possibili rilanci futuri. La prossima tappa è infatti una serie tv già annunciata: l’incantesimo continua.


