Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.
Da Sogno, in Mirycae
Il segreto nei biopic dei poeti al cinema è sempre quello di riuscire a catturare l’origine del verso, trovare la chiave di volta per cui la scrittura del film diventa passepartout per svelare la magica alchimia che scolpisce il verso, quel verso che come nei film a volte è capace di disarmare la realtà disarticolandola nella frammentazione delle parole che ricombinano, nel loro mutuo sostegno, il senso di una particolare percezione. Pascoli, fu il poeta della frammentazione, del simbolismo decadente, cresciuto e alimentato dentro un nido protettivo che accresceva il senso di una infinita fanciullezza. Da qui i suoi versi apparentemente semplici, che possono apparire didascalici e descrittivi, ma che sanno raccordare sentimenti e realtà, in quella empatia infantile che non lo abbandonò mai. Non è un lavoro semplice intrecciare la genesi poetica con la biografia del suo autore e se per la prosa questo vale, per la poesia, se si può dire, vale il doppio, tanto trasfigurato resta il senso dei versi, tanto implicito, se non mascherata o metaforizzata appare la scrittura della poesia. La figura poetica di Giovanni Pascoli prepara il ‘900. Maestro e celebrato poeta di quell’arte fanciullesca, primitiva, sempre declinata in un vivace quanto irrazionale e intimo simbolismo, questo fece di lui un vero outsider in un’epoca in cui ancora l’accademico – per quanto irrequieto – Carducci, suo professore, in Italia dettava le regole del poetare e la nuova poesia legata ad un decadentismo europeo sembra trovare nuove strade in D’Annunzio. Pascoli rimase estraneo a quegli ambienti, protetto – come racconta Piccioni nel suo film – in quel rifugio perso ma ancora amato di Castelvecchio di Barga che continuò a costituire il suo mondo.

La storia comincia dalla morte del poeta (Federico Cesari) a Bologna e dal suo desiderio di essere seppellito proprio a Castelvecchio, suo luogo di nascita. Tutto sarebbe dovuto avvenire, nel rispetto delle sue ultime volontà, senza cerimonie né laiche, né religiose, solo la bara con un Crocefisso sopra. Lo accompagnano gli amici e la devotissima sorella Maria (Benedetta Porcaroli). Ida, invece, l’altra sorella (Liliana Bottone) non ha voluto partecipare al funerale del fratello. Dopo anni di convivenza lo sentiva lontano, per quel dissidio nato per il suo matrimonio con Stefano Berti, che in seguito l’avrebbe abbandonata. Lo accompagnano nel suo ultimo viaggio anche i suoi studenti, lo salutano contadini e operai in nome di quel socialismo un po’ anarchico che il poeta aveva sempre coltivato. Il viaggio, su un treno ancora con i sedili in legno è l’occasione del ritorno dei fantasmi della sua vita in un racconto parallelo fatto di apparizioni e sparizioni, ricordi, lutti. Su tutto la morte del padre ucciso mentre tornava a casa la sera del 10 agosto 1867 quando ancora il piccolo Giovanni era con i fratelli al convento degli Scolopi a Urbino. L’eco di quei versi che ricordano questi fatti ci introducono in quel mondo primo novecentesco al quale appartenne il poeta di San Mauro di Romagna, oggi San Mauro Pascoli. Giuseppe Piccioni è riuscito a percepire l’intimità che suggeriscono i versi di Pascoli e il suo film introduce lo spettatore dentro questa vita introversa che dalle note biografiche si riversa intatta nei suoi versi.

Zvanì, il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli sembra tessere, soprattutto nell’ambiente protettivo dentro il quale il poeta vive, in quella simbiosi altrettanto accudente nei confronti di Ida e Mariù, trame segrete, sentimenti carsici che diventano il tessuto dentro il quale il film riesce a catturare i sentimenti. Piccioni lavora in simbiosi con il suo personaggio e controcorrente, rispetto ad una possibile biografia sceneggiata che esige i fatti, guarda invece al farsi dell’opera in quel nascere dei versi che diventa quasi forma confessoria, manifestazione di una interiorità che si rivolgeva ad un mondo privato. Nonostante l’impegno politico che lo aveva anche condotto in prigione e lui stesso si definisse poeta di campagna, poeta quasi contadino, nonostante la solida cultura umanistica che aveva e che lo fece diventare presto docente universitario. Quella natura che lo faceva stare distante dai salotti romani, quelli frequentati da D’Annunzio, che lo stimava senza essere stato troppo ricambiato, dall’ambiente delle riviste. Schivo e dedito a poche amicizie dedicò la sua vita alle sorelle e nell’ultima parte alla sorella Mariù che sentiva debole e fragile. Piccioni e Petraglia, che scrive la sceneggiatura, provano a risalire questa corrente biografica in un film che vuole indagare caparbiamente sui sentimenti proprio in quelle segrete trame e quei fantasmi che popolano il racconto in un incombere della storia che da lì a poco avrebbe portato l’Italia dentro un conflitto tragico. Il viaggio in treno, che fa da collante alla storia, apre gli scenari delle combinazioni, tra apparizioni e sogni, tra nuove trame d’amore e elaborazione di un lutto collettivo, sui versi del poeta che scandiscono nel loro ritmo il breve viaggio tra le campagne emiliane.


