La sensazione è che, in fondo, sia sempre il cinema del non finito, dell’incerto, del flusso rigoroso e insieme accidentato, un cinema inattuale, dolcemente incosciente, perso, smarrito più tra le cose del mondo che dentro sé stesso, a nominare quelle cose, quella esperienza del mondo, a smuovere i margini, le connessioni, le fratture tra il tangibile e l’immaginario. As Estações di Maureen Fazendeiro (tra i titoli del Concorso Internazionale del Filmmaker Festival) sembra praticare naturalmente queste forme, queste fughe, queste deviazioni del racconto sottratto alla scure della narrazione che domina e vincola il discorso, che annoda la parola all’immagine, che destina il senso alla compiutezza corretta, al nesso automatico, alla leggibilità definitiva. Fazendeiro (Motu Maeva, Les Habitants), stretta collaboratrice di Miguel Gomes, insieme al quale ha diretto Diario de Otsuga e scritto Grand Tour e (il prossimo) Savagery, al suo primo lungometraggio dietro la macchina da presa fa della temporalità il luogo del desiderio e della lotta del cinema, la sua utopia, il campo di battaglia di un pensiero che sogna, e lo fa – la regista nata a Créteil nel 1989 – con un passo sorprendentemente lieve, di una levità come pasoliniana, aspramente allegra, che incontra le memorie vicine e lontane allo sguardo di Apichatpong Weerasethakul.

Ecco perché non ci sono personaggi ma persone, figure, animali, voci, movimenti ritornanti, illusori, transeunti; ecco perché le panoramiche accarezzano il mito e le verità impossibili mentre i campi totali sanno dire la prossimità più di un primo piano o di un particolare; ecco perché il testo non dispiega le immagini, ma tenta piuttosto di incarnarle, tracciando e stracciando linee di collegamento tra la memoria della terra e della Storia, del tempo e delle storie che durano e mutano. Il documentario è solo una soglia da varcare e il realismo un falso ostacolo: la docilità delle capre non sa sopprimere del tutto la loro vena anarchica, un gruppo di anziani seduti canta i giorni della Rivoluzione e del fascismo che muore, giovani archeologi cercano segni di vita come nei solchi più preziosi aperti da Herzog, leggende popolari informano la verità della finzione, le lettere dei coniugi tedeschi Georg e Vera Leisner, archeologi che durante gli anni della Seconda guerra mondiale, mentre il loro Paese si avvicinava alla definitiva disfatta, conducevano fondamentali studi sul Neolitico e sulle sue tracce (come i dolmen, porte tra i mondi) in questa regione, l’Alentejo, nel sud del Portogallo, sono voci nel tempo, fuori e dentro le immagini. Il passato e il presente in As Estações non sono categorie, sono impronte, e Fazendeiro le mette in rapporto, le scova, le ricostruisce, le inventa, in questo film di carne degli uomini e di spettri che camminano tra la Preistoria e il Novecento. Astratto e materico, felicemente politico. Riprese durate anni, inframezzate da nuove scritture e scoperte, uno sguardo rigorosamente e liberamente morale. 16mm, Super8, bianco e nero, colore: il cinema, infine, di nuovo, come utopia, come splendido archivio delle memorie non ancora nate.


