Giovani madri da osservare, nell’indagine lieve dei fratelli Dardenne

Jessica, Perla, Julie, Arianne e Naïma sono cinque ragazze ospiti di una casa d’accoglienza per ragazze madri, ognuna con una vita diversa, ma accomunate dalla maternità. Sono loro le protagoniste del film Giovani madri di Jean-Pierre e Luc Dardenne che all’ultimo festival di Cannes ha vinto la palma d’oro meritatissima per la miglior sceneggiatura. Cinque adolescenti con passati recenti difficili e un presente da plasmare con grande forza di volontà. I fratelli Dardenne si accostano a questo progetto con l’intenzione di raccontare la vicenda di una sola ragazza e per questo frequentano a lungo la casa-famiglia di Liegi in cerca della loro storia. Ne trovano cinque e con queste costruiscono un film in tutto fedele al consueto metodo di osservazione e ascolto, ma nel quale si innestano sottili differenze. Perché forse per la prima volta si trovano di fronte a personaggi imprevedibili, che devono poter seguire lo sbilanciamento delle loro vite prima di trovare un equilibrio, o almeno di riconoscerlo. Il film, infatti, si lascia plasmare da questo incedere incerto, lo asseconda riuscendo a toccare con mano i moti di animi irrequieti e traballanti. Accetta di inseguire le sue protagoniste per arrivare a guardare ben oltre il visibile.

 

 
La flagranza del reale che affiora durante un intenso lavoro di organizzazione precisa e puntuale, prove, ripetizioni, aggiustamenti necessari perché tutto possa entrare nel ristretto spazio di un primo piano, che, in questo film rappresenta la scelta formale costante. Il documentario allora, è solo il punto di partenza dello sguardo, che consente (e ha consentito) ai registi belgi di non sovraccaricare mai la narrazione, neppure quando le storie avrebbero mille strati da raccontare. Come la giovane arrabbiata Jessica, che cerca la madre che l’aveva data in adozione per sapere le ragioni del suo abbandono, o Ariane, che, invece, vorrebbe tenere la madre lontana da sé e dalla sua bambina, ben consapevole dei disastri non solo emotivi commessi dalla donna. Vuole dare la figlioletta in adozione, ma la scelta è difficile. Spesso il punto è un filo da spezzare per evitare di aggrovigliarsi in una ripetizione senza fine di dolore e abusi già provati.

 

 
Perla, ad esempio, aspetta che il padre di suo figlio esca dal riformatorio. Con lui vorrebbe formare una famiglia, ma i suoi piani vanno in frantumi e la paura della solitudine l’affligge. Julia, invece, ha trovato un appartamento con il suo compagno dove crescere la figlia neonata, ma è il mondo a spaventarla, la strada dove si era persa nella droga, gli spacciatori che abitano la periferia. Fragilità profonde di giovanissime madri messe al centro di un’indagine lieve, condotta con empatia e naturalezza, ma anche con disarmante coraggio, che ci restituisce l’umanità dei gesti semplici e la sensatezza di interrogativi mai pleonastici. La rinascita che passa attraverso una nascita, e prima ancora un’attesa che sa essere traumatica e spontanea. Come se lo sguardo sulle vite complicate di queste cinque ragazzine ponesse al tempo stesso domande a noi spettatori e alla società intera, che ha perso la capacità di osservare davvero.