Materia infinita per eccellenza, Fino alla fine del mondo è il film universo di Wim Wenders, quello che traduce tutte le sue ossessioni nel gesto assoluto di un’opera bigger than life, approssimato alla visione di una realtà che risponde a una logica onnicomprensiva, che ingloba tutto il sistema estetico ed espressivo edificato dall’autore in vent’anni e passa di cinema, tenendo insieme languori cinefili, furori musicali, torsioni esistenzialiste, introflessioni storicistiche, ambizioni spettacolari. Fantascienza, road movie, noir, melodramma, tutto insieme in un film-mondo spinto alla fine di ogni immaginario possibile, perché concepito come un oggetto estetico futuribile, ammonitorio e premonitore. Un on the road generato da un vanishing point incongruo, un punto di fuga che sta alla fine del mondo perché assume in sé il doppio senso del titolo, quello spingersi agli estremi confini geografici e temporali della Terra: si procede all’ombra di un’apocalisse tecnologica sospesa sul pianeta, determinata dall’attesa caduta di un satellite artificiale che annuncia una catastrofe nucleare.

Tutti giù per terra, schiacciati dal proprio peso esistenziale, mentre si segue il proprio destino ineluttabile: tra ragazze che tentano di raggiungere una Parigi inafferabile, rapinatori nouvelle vague in fuga col malloppo, scienziati ladri braccati da agenti governativi, macchine che registrano i pensieri e le emozioni, investigatori privati dall’animo candido, famiglie sirkiane nascoste nell’Outback australiano… Un trip che ha l’ingenuità di un bambino, l’ansia di un adolescente e il disincanto di un adulto compressi nel gesto assoluto e infinitivo di un filmare (ovviamente cinefilo) che non conosce confini, né geografici né narrativi né produttivi: Wenders ancora lo stava scrivendo e già costava troppo, già doveva rinviarne la lavorazione, mettendo intanto sullo schermo capolavori en passant come Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino, pour en finir avec l’Amérique et l’Allemagne… Ecco quindi il tuffo nel mondo tutto, ovvero nella folgorazione aborigena scaturita dal suo primo incontro con l’Australia, che gli detta questo film-universo che tutte le storie contiene e conclude, racchiudendole nella somma in conclusione del dire: nulla di nuovo sotto il cielo…

Come Travis disperso nel Texas, Wenders e Peter Przygodda al tavolo di montaggio sono persi nella magnitudo di un film che non può assolutamente stare nella durata “standard” richiesta dai produttori per accedere ai mercati e rientrare nei costi di un progetto monstre. Wenders, prigioniero dello stato delle cose, accetta di licenziare un montaggio di due ore e mezza circa (quasi tre per il mercato europeo…), lo porta in giro per il mondo diligentemente. Ma soffre, vede il fantasma del suo film che vaga per l’Europa e il Mondo, senza anima. E appena torna a casa contatta il fido Peter e si rimette al tavolo di montaggio, custodendo un segreto che solo anni dopo rivelerà: ha tenuto per sé il negativo super35mm e ha consegnato ai produttori un duplicato 35mm… Così, due anni dopo l’uscita ufficiale del film, licenzia un Director’s Cut di Fino alla fine del mondo di quasi 5 ore (288′ per la precisione), che viene sporadicamente presentato ai festival e pubblicato in DVD (in Italia ci pensa la RHV in un ormai raro cofanetto). Ora è al cinema, qua e là anche in Italia (l’anteprima è stata in Puglia, lo scorso giugno, per la rassegna Cinema Addiction): un’esperienza filmica autentica, da non perdere se si vuol dire di aver veramente visto Fino alla fine del mondo di Wim Wenders e aver ascoltato la magnifica colonna sonora che ne regge l’impianto…


