Una coppia di film di provenienza assai diversa accende di sfumature inedite il dibattito – sempre
inevitabilmente presente in un Festival come quello di Trento, dedicato alla montagna – tra la
natura come madre severa ma accogliente oppure come devastante matrigna. Si tratta di due film
in concorso nella competizione principale, quella che assegna le Genziane d’Oro per il miglior
lungometraggio, ed entrambi potrebbero dire la loro al momento della assegnazione dei premi.
K2 -Touching the Sky, diretto da Eliza Kubarska con produzione che aggiunge capitali tedeschi e
britannici a quelli “made in Polonia”, si interroga infatti su un tema piuttosto inusuale: è possibile
conciliare la scelta di diventare genitori con i rischi (e i tempi) dell’alpinismo vissuto come
professione? La risposta della regista, che è anche la professionista da cui muove il dilemma,
viene rappresentata dal film stesso. Un’opera concepita come un approccio laterale alla materia,
attraverso le esperienze di figli che hanno perso i genitori sul K2, la seconda cima del pianeta e
pure una delle più belle, difficili e ricche di fascino per gli appassionati. Eliza sale con quattro
persone, che hanno vissuto l’assenza definitiva di padri o madri, al campo base del K2; e altre ne
incontra e interroga sul suo cammino o durante la sua permanenza. E alla fine fa la sua scelta, che
condivide – in immagini – con noi spettatori. Ci sono parecchie ingenuità, alcune strettamente
stilistiche, altre narrrative, nel lavoro della arrampicatrice e documentarista polacca: ma forse non
fanno che accrescere l’aura genuina che avvolge il film, capace di momenti empaticamente
emozionanti, comunque sufficienti per arginare la monotonia di certi passaggi a vuoto. E la
bellezza della fotografia (che in questo tipo di soggetti è data per scontata, ma non è affatto una
certezza) eleva il prodotto sopra la media, preparando a un finale catartico e visivamente
splendido. (Nella fotografia in alto K2 -Touching the Sky).
Assolutamente senza sbavature sotto il profilo formale è invece il film cinese Behemoth, già passato
in concorso all’ultimo Festival di Venezia (venne proiettato l’ultimo giorno e per qualche ora fu
addirittura in testa ai pronostici per il Leone d’Oro), adesso oggetto di un importante recupero da
parte del curatore della rassegna, Sergio Fant, in attesa che qualche distributore italiano si
accorga della sua forza espressiva (perché repetita iuvant e magari qualche distratto cacciatore di
primizie ha la possibilità di rimediare…). Lo sguardo potente di Zhao Liang, cineasta rigoroso e da
sempre estraneo ai circuiti commerciali, si concentra sulle ferite aperte nelle regioni della Mongolia
dalle miniere di carbone. Un’operazione su vastissima scala che ha rovinato irrimediabilmente un
paesaggio di abbacinante bellezza, rendendolo un inferno con tanto di fumi, fuochi e danni fisici ai
lavoratori. Dietro una devastazione di proporzioni epiche, il regista – che ricorre a immagini ben
precise della narrazione dantesca, oltre che al simbolismo dell’uomo perduto dentro la vastità
incombente del paesaggio, per aiutare con parole le chirurgiche riprese – vede stagliarsi la figura
mitologica di Behemoth, l’insaziabile creatura biblica da cui deriva il titolo. È indubbiamente una
natura matrigna quella che si manifesta, anche attraverso la malattia che colpisce gli “schiavi” del
Terzo Millennio che invadono le viscere della Terra; ma, come sovente accade, si tratta della reazione a un’azione sconsiderata dell’uomo, l’unico essere davvero capace di malvagità, pure quando sembra non accorgersene.