L’uscita al cinema di Tartarughe Ninja – Caos mutante (da qui in avanti solo Caos mutante) è l’occasione perfetta per provare a mettere a fuoco le tendenze più contemporanee dell’animazione mainstream di matrice statunitense. I fotogrammi dell’ultimo film di Jeff Rowe sembrano infatti confermare a gran voce la ricerca di un’estetica e una struttura ben precisa, che sta poco alla volta mutando la produzione di questi progetti. Certo, a ragione, il film è stato accostato alle innovazioni stilistiche e alla ricerca performativa di titoli come Spider-Man: un nuovo universo (2018) e Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) o alla bellissima serie Netflix Arcane (2021). Eppure la portata di Caos mutante non si limita solo a questo accostamento. Quello diretto da Rowe è infatti un film pienamente calato nel contemporaneo tout court, non solo animato. Prendiamo l’incipit. Si tratta di una sequenza indimenticabile, tesissima, dinamica. In pochissimi secondi, il film ci catapulta negli anni Novanta. La metropoli umida, gli inseguimenti, i primissimi piani sugli occhi di banditi e inseguitori… siamo dalle parti di Heat – La sfida (1995) e di Seven (1995), il tutto sottolineato anche dalla colonna sonora elettronica e straniante dei sodali Trent Reznor e Atticus Ross, da tempo collaboratori di Fincher e comunque compositori di una maturità sperimentale messa qui al servizio di un action più che un film pensato per famiglie.
Insomma, il caos mutante espresso nel titolo rispecchia in tutto e per tutto la mutazione che il cinema animato sta poco alla volta attuando sui suoi stessi parametri. Si tratta di un percorso decisamente più lungo e fluido di quanto possa sembrare, che poco alla volta sta iniziando a portare i suoi frutti. Pensate al successo di una serie come BoJack Horseman (2014-2020), al lavoro di cineasti di tutto rispetto che negli ultimi anni si sono dedicati a questa tecnica (Steven Spielberg, Wes Anderson), all’annuncio sincero e appassionato strillato da Guillermo del Toro nel ritirare l’Oscar per il suo Pinocchio («l’animazione non è un genere», disse). Rowe aveva già contribuito ad alimentare questa strada con il suo film precedente, I Mitchell contro le macchine (2021). Seppur in maniera più velata, più sottile, anche in quel caso si provava ad alzare il tiro, a offrire uno spettacolo diverso, più audace, più originale e ficcante, spacciandolo comunque per un grande film animato in grado di dialogare con il pubblico più ampio possibile. In Caos mutante la formula è praticamente la stessa, anche se cambia la sostanza.
Si prova a lavorare su un brand già ampiamente consolidato; ci si avvale della penna di Seth Rogen in fase di script per bilanciare il dinamismo thrilling a una linea comica corposa e sostanziale; si insiste sulla cara (per il marketing) malinconia che tanto funziona nel mercato contemporaneo; si lavora con un immaginario cupo, sporco e tetro, lontano dalle dinamiche più colorate e vivaci a cui siamo da sempre abituati per prodotti di questo tipo. Se è vero che il cinema rispecchia con precisione la società nel quale un film viene concepito e realizzato, e se è altrettanto vero che l’animazione da sempre sia la tecnica audiovisiva più libera e quintessenziale per sprigionare la creatività degli autori in questione, allora studiare il mutare di questi film ci permette di trarre delle conclusioni interessanti sul mutare delle nuove generazioni, dei loro gusti, interessi, della loro sensibilità. Quello che ne emerge è un bel caos. In tutti i sensi.