Proiettato nel 1915, il film Birth of a Nation non è famoso solamente per aver drammaticamente ingrossato le fila del Ku Klux Klan, di cui fa una propaganda glorificandolo agli occhi degli americani. La pellicola è infatti parte di un incantesimo che ha evocato i Klux, bestie demoniache che si impossessano delle coscienze delle persone nutrendosi dell’odio che in esse alberga. Alcuni anni dopo, in una cittadina della provincia statunitense tre donne nere danno la caccia spietata a questi abomini di un’altra dimensione. Si tratta di Maryse, in possesso di una spada in cui è infusa la sofferenza di spiriti morti nel passato, Sadie, cecchina infallibile con il suo fucile Winnie e Cordelia detta Chef, una veterana del primo conflitto mondiale. Aiutate depositarie della tradizione dei neri americani e da spiriti oltremondani, le tre amiche dovranno affrontare l’invasione di cui i Klux sono l’avanguardia. Il lavoro che gli scrittori africani e appartenenti alla diaspora africana stanno compiendo con la materia del fantastico, oltre che sulla musica, è un processo in atto da diversi anni. I movimenti detti futurismo africano e afrofuturismo si riappropriano della mitologia e della speculative fiction, sia essa fantasy, fantascienza e tutto ciò che vi sta in mezzo, per portare avanti una progetto di sviluppo di un immaginario che prende le mosse dalla cultura africana e della diaspora proiettato verso un’idea di presente e di futuro. (in apertura un’immagine tratta da Birth of a Nation D. W. Griffith).
Ring Shout (Mondadori, euro 14, pag.224) il romanzo di P. Djeli Clark che ha fatto incetta di premi nel settore (Hugo, Locus, Nebula e tanti altri) e di cui da tempo si sta pensando un adattamento in forma di serie TV, pesca a piene mani dalla tradizione dei neri d’America spingendo la ricerca fino alle radici africane di una cultura ricca e sfaccettata , uscita dalla propria nicchia ed entrata nell’immaginario popolare mondiale. I riferimenti qui vanno più a fondo, l’autore si avvale della precisione richiesta alla fiction di carattere storico per impastare la narrativa fantasy contemporanea con elementi più o meno conosciuti della cultura e della tradizione afroamericana quali la pratica spirituale e musicale che dà il titolo al romanzo o la lingua Gullah, parlata dagli schiavi della Georgia. L’impasto tiene e dà vita a una narrazione soddisfacente e con un bel ritmo tirato, una novella fantasy estremamente godibile e ricca d’azione ma al tempo stesso non priva di una sua profondità oltre che di un world building denso e interessante che dà una scarica di vitalità universale a una tradizione molto particolare rendendola accessibile a tutti. Oltre che divertente, un libro come Ring Shout è importante proprio in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui il fantastico è oggetto di un dibattito spesso anche aspro proprio in quanto la diversità e la consapevolezza delle minoranze di ogni genere si fa strada in una narrativa che fa dell’apertura e della capacità di superare i confini del pensiero mainstream il proprio teorico punto di forza pur scontrandosi spesso con la realtà di un fandom, o meglio di una parte di esso, che sembra non trarre beneficio dalle possibilità delle proprie forme d’intrattenimento d’elezione spesso perdendosi in un bicchiere d’acqua con polemiche sterili quanto poco supportate da argomentazioni solide. Ring Shout rappresenta quella parte di speculative fiction che prende una via differente, che non mette mano al canone ma crea nuovo materiale dove un canone strettamente sorvegliato a livello commerciale non c’era sfruttando quindi la maggior fluidità data dalle culture tradizionali non sottoposte a copyright.