Il Nobel poi ci è andato, quasi in segreto, a ritirarselo. Senza clamori, e passata la suspense dei giorni successivi all’assegnazione. Sicché. I guess I’ll have to change my plans. Si sa. Quando si tratta di Bob Dylan, tutto ciò che sembra casuale non lo è affatto. E Triplicate, ultima fatica del nostro suddivisa appunto su tre cd o tre vinili (il packaging delle due edizioni è parimenti magnifico), si apre con queste parole. Volenti o nolenti, i migliori incipit sono sempre dichiarazioni di metodo, poetica, segno, messaggio. O sberleffo. E anche questa volta il vecchio Bob non sfugge alla regola. Da quando lo stare in odore del massimo premio mondiale per la produzione di parole si è fatto concreta possibilità di riceverlo, di parole sue non ne ha più scritta una. Ricordate Oh Mercy, l’album che per critica e pubblico segnò nel 1989 una delle tante sue rinascite? Iniziava così: We live in a political world / Love don’t have any place / We’re living in times / Where men commit crimes / And crime don’t have any face (Political World era il brano). Altri tempi, altre urgenze. E l’epico colpo di reni di Time Out Of Mind (1997)? Iniziava così: I’m walking / through streets that are dead (Love Sick la canzone). Sebbene Dylan all’epoca non avesse ancora compiuto sessant’anni, tutto quel disco lasciava già presagire una sorta di resa dolente, e quegli arrangiamenti e quel modo di porgere le parole (pensate a Standing in the Doorway) sono stati da allora una costante di tutti i suoi dischi di studio successivi.
Sono ormai cinque anni (dal sottovalutato Tempest, 2012) che Dylan non incide (scrive) più brani nuovi. E che affida la fase presumibilmente finale della sua carriera a un sentimento di esplorazione non nostalgica ma celebrativa e introspettiva del Grande Canzoniere Americano, il Great American Songbook (ovvero quel repertorio non canonizzato ma di pubblico patrimonio degli standard jazz composti tra gli anni Venti e l’avvento del rock’n’roll), divenuto punto di riferimento per musicisti e cantanti (Frank Sinatra su tutti: e infatti non solo 29 pezzi su 30 sono stati evergreen delle scalette del crooner per eccellenza, ma l’album clona in pieno la struttura di Trilogy: Past, Present and Future, analogo tour de force di “Blue Eyes”) nell’ambito della grande musica popolare -oggi demodée- statunitense. “Judas!”gli urlò uno spettatore nel fatidico 1966 della svolta elettrica. Traditore. Fu lo stesso epiteto che sibilò tra i denti dei compagni all’epoca della conversione di Saved (1980) e Infidels (1983) e del concerto per il papa. E quello che balenò nelle menti di qualche scemo quando una decina d’anni dopo anche lui si piegò alla moda degli unplugged di MTV. Oggi che nessuno più si sogna di apostrofarlo in alcuna maniera, Dylan tradisce ancora. È un tradimento più subdolo, un’afasia post-celebrazione, un rifiuto di produrre testo (quindi senso) che si trasforma in una ricerca di senso attraverso musiche (ma soprattutto testi) altrui. E la pazienza, anche quella dei fan più incalliti, viene messa alla prova. Dylan non è nuovo ai dischi di cover: il bellissimo (c’è Blackjack Davey) Good As I Been To You (1992) e il lagnoso e anodino World Gone Wrong (1993) ce lo avevano già detto; così come il divertissement natalizio di Christmas In The Heart (2009). E ora, a seguire Shadows In The Night (2015) e Fallen Angels (2016), Triplicate aggiunge tre nuovi capitoli distinti (ogni disco ha un suo titolo: ‘Til The Sun Goes Down, Devil Dolls e Comin’ Home Late) all’epopea. E alza la posta in gioco senza però cambiare formula o struttura degli arrangiamenti rispetto ai due precedenti a eccezione del fatto che tutti i brani sono stati stavolta registrati live senza accorgimenti di studio o sovraincisioni per coprire indecisioni (qualcuna) e inesattezze (più d’una) dell’esecuzione. Ma liquidare l’opera come ennesima linguaccia alle aspettative dei fan (tipo quando faceva interi concerti quasi di spalle bofonchiando fonemi scazzati su arrangiamenti discutibili dei suoi capisaldi) è ingeneroso. Nei trenta brani che compongono Triplicate, accuratamente scelti più per quello che dicono che per come suonano (ovvero, a un orecchio rock, tutti paradossalmente uguali), Dylan cerca sé stesso. O meglio: cerca di offrire il vero sé stesso a chi credeva già di conoscerlo. O forse cerca di nascondere ancora una volta il vero sé stesso fingendo di non nascondersi più. Dylan, d’altronde, come aveva ben esplicitato Todd Haynes in quel film fondamentale e frainteso (anche dal sottoscritto) che era Io non sono qui, è un enigma, un uomo-rebus, una Sfinge che si è sbranata tutti gli Edipi che l’hanno avvicinata. E Triplicate è un placido (torpido) concept sulla sua idea di condizione umana. Il primo disco è dedicato al tempo, un tempo denso ma che sembra essere volato e che viene oggi inteso come la scadenza di un’infinitezza a termine: September Of My Years, Once Upon A Time e soprattutto Stormy Weather (decidete voi se all’originale associare il nome di Billie Holiday o di Ella Fitzgerald) sono lì a dimostrarlo. Il secondo è chiaramente dedicato all’amore, nella struggente declinazione del ricordo e della perdita, con una versione stranamente lugubre e appesantita di As Time Goes By a fare da picco emotivo. Il terzo, la cui reductio ad unum è più sfumata e sfuggente, sembra invece dominato dal sentimento tutto intimamente americano dell’homecoming, l’approdo terminale alla ricerca di certezze familiari di un viaggio a cui va scritta la parola fine: dove la celeberrima Sentimental Journey di Les Brown, Ben Homer e Bud Green va a fare compagnia a These Foolish Things e all’intuizione di lasciare a suggello perfettamente finale un brano come Why I Was Born (Why was I born/ Why am I livin’/ What do I get/ What am I givin’). Il tono pacato e apparentemente monocorde del Dylan interprete e l’uniformità degli arrangiamenti (pedal steel -di Donnie Herron- e spazzole come se piovesse, piccoli slanci orchestrali dal sapore di Broadway, swing rallentati, minimi fremiti blues, contrabbassi carezzati con l’archetto) rendono l’ascolto laborioso, quando non addirittura arduo. Ma forse la chiave di lettura è proprio questa: dimenticare il suono per concentrarsi sulle parole. Immaginare un reading con un’unica ellittica armonia a fare da legante. Lasciarsi raccontare la vita da un film muto immaginario. Con accompagnamento. Che c’è, e però non si vede.