Una testimonianza partigiana straordinaria, vivida, dal cuore dell’azione. Una gigantesca figura femminile della Resistenza, Giovanna Zangrandi, che con il nome di battaglia di Anna ha trascorso venti mesi tra i boschi e le montagne del Cadore, non più meta di escursioni e discese con gli sci in libertà, ma luoghi dove si combatte la guerra di Liberazione. E mentre Anna fa la sua parte, Giovanna scrive, riempiendo quaderni che a un certo punto dovrà sotterrare a 1700 metri, sotto le cime delle Marmarole, nelle Dolomiti orientali, e che recupererà solo a guerra finita. Quei quaderni saranno la materia prima a partire dalla quale Zangrandi ricostruirà la storia di Anna e dei suoi «giorni veri». Veri non solo perché veramente vissuti, ma anche perché della Resistenza l’autrice restituisce un’immagine diretta, tutt’altro che retorica, espressa in una scrittura di grande modernità. «Un racconto svolto con una semplicità così immediata e così scarna che potrebbe apparire addirittura brutale», commentò un’altra scrittrice e partigiana, Ada Gobetti. «Un diario veramente eccezionale cui la tempra di scrittrice di Giovanna Zangrandi dà anche un più che notevole valore letterario». Giovanna Zangrandi, pseudonimo di Alma Bevilacqua, nasce a Galliera in provincia di Bologna, e dopo la laurea in Chimica si trasferisce a Cortina, dove insegna, scrive sui giornali locali, arrampica e fa la maestra di sci. In seguito agli eventi dell’8 settembre entra nella brigata Pietro Fortunato Calvi. Dopo l’impegno nella Resistenza, si dedica alla scrittura Negli anni Cinquanta collabora con l’Unità, Gioia, Epoca, Amica, La Nazione, Noi donne. Nel 1954 pubblica con Mondadori I Brusaz, che vince il Premio Grazia Deledda, nel 1959 Il campo rosso (Premio Bagutta) e nel 1963 I giorni veri (Premio Resistenza-Venezia). Nel 1946 costruisce il Rifugio Antelao, che diventa in seguito proprietà del CAI. Scomparsa nel 1988, l’autrice è sepolta a Galliera.
In apertura un’immagine del Rifugio Antelao: «Giovanna Zangrandi desidera restare tra le montagne della sua Resistenza, e così, nel 1946, si lancia nell’avventura di costruire, con una squadra di pochi manovali e muratori, un rifugio alpino e di condurlo in proprio» (Giuseppe Mendicino).
Per gentile concessione di Ponte alle Grazie proponiamo un estratto da I giorni veri. Diario della Resistenza di Giovanna Zangrandi (pag.272, euro 16)
Cadore, 15 giugno 1944
La faccenda si muove anche da noi, ma tragicamente: ieri, 14 giugno, c’è stata battaglia a Passo Mauria e sei dei nostri ci sono rimasti. Era da molti giorni che a Pieve e dintorni parlavano di un prossimo lancio, troppa gente sapeva e parlava, per piazze e osterie, certuni in margine al movimento, smaneggioni dalla lingua di femmine, perfino il messaggio sapevano: «Bracciano è un lago», si facevano belli della loro importanza. Chi ha parlato tanto, porca miseria? Fin che un informatore ha avvisato i tedeschi: era da immaginarlo. Venne quel lancio e Garbin non c’era. L’aereo ha sganciato dove non doveva e c’è voluto del tempo a ricuperare i colli; c’erano lassù una trentina di ragazzi della Calvi, ben armati, sì, ma tutti troppo giovani, inesperti e soli. Celso in vedetta su un posto ottimo, con molte sipe e mitraglia, vede i tedeschi arrivare, li sente che arrivano e valuta che di lì, da quella posizione si potrebbe fermare qualunque colonna, ma ha ordine di non sparare, solo avvisare. E obbedisce. Al valico i tedeschi si sono appostati e hanno dato battaglia, più scoperta e micidiale qui; questa trentina di ragazzetti hanno combattuto e manovrato selvaggiamente, sparato e sparato con incredibile fegato, quattro sono caduti: Renato Frescura, Bepi Striss, Papazzoni e uno del Comelico (era ferito alla gola, è morto stanotte; curato male, è morto). Ecco, dopo vedono i tedeschi là sul valico tirarsi dietro per i piedi dei morti loro, fin che escono dal tiro delle nostre armi automatiche, si mettono con i camion sulla mulattiera militare, con le venti millimetri sparano dai camion. A lungo hanno sparato e dopo il pesto si sa che accerchiano.Allora i ragazzi hanno deciso di ritirarsi, in ordine, quelli vivi, di tentare per l’ultimo pertugio di torbiera scoperta, pertugio che presto sarebbe stato occupato; infatti s’è vista avanzare da sotto una compagnia tedesca; per coprirsi dal tiro costoro si spingono avanti dei civili, gente di Carnia ignara, ch’era nei fienili a far fieno, donne con le gerle e bambini, camminano nel silenzio del terrore con i fucili alle costole, la solita storia delle guerre, il solito ricatto. E così sparare non si può più; solo buttarsi in boscaglia, defilare con i feriti nostri. I colli del lancio sono andati perduti. Altri due dei nostri li hanno mitragliati e uccisi al ponte del Cridola. Ecco, sei morti, sei evitabili morti: avevamo solo entusiasmo tutti, quelli in linea e noi delle retrovie, tutti ora abbiamo dentro il veleno degli errori, sappiamo che oltre a tutte le difficoltà logiche dovremo inarcarci, aspettare, ammettere anche errori illogici dei nostri capi e nostri. Questo primo errore lo stiamo pagando con sei dei nostri migliori: Papazzoni è figlio di un ferroviere, Bepi Striss è di Tai, sua madre vedova, Renato Frescura è figlio di un colonnello di Pieve, decorato del 1915, quel ragazzo del Comelico e gli altri… ne avevano bisogno a casa, dopo. Oltre a tutta questa amarezza ora bisognerà cercare quella merda italiana che ha tradito, cantato ai tedeschi; quello o quelli, ucciderli e domani portare il peso di sangue paesano versato.