Il romanzo di Vittorini è la mappa di un’isola che nello stesso tempo racchiude nei suoi confini tutto l’universo. Ninive e Babilonia e Gerusalemme e Samarcanda, tutto il passato e il futuro del genere umano.
Italo Calvino
Scritto negli anni Cinquanta e non a caso incompiuto, Le città del mondo rivela quasi immediatamente la sua natura di romanzo fluviale e finale, con l’archietettura solenne e maestosa di un monumento perenne. Costruita su personaggi nomadi, che si aggirano per la Sicilia inseguendo misteriosi e impalpabili obiettivi, la narrazione procede per ampie spirali che si avvitano intorno a immense folle contadine in marcia per ricongiungersi in una piana deserta, e lì rinnovare l’antico rituale di un’assemblea universale. Sebbene l’ambientazione e la figuralità possano ricondurre a Conversazione in Sicilia, la vocazione mitica di Vittorini trova qui una più piena e pacificata manifestazione, un respiro tendente per sua natura a confrontarsi col Mondo. Ne scaturisce una sorta di topografia mentale , una costellazione di città quasi affatto prive di particolari realistici, sulla quale si scarica a ondate successive uno sfuggente senso della storia: greggi e automobili, arcaici cantastorie e modernissime ragazze motorizzate, prostitute grandi madri e coppie disperate si sovrappongono e si allontanano in incessanti dissolvenze, con movimenti spesso rallentati quasi a raccogliere la maggiore quantità possibile di valori simbolici. Si scopre, in questa stagione estrema della narrativa di Vittorini, come la volontà di compilare un Catalogo, un repertorio universale di tempi e luoghi, filtrati dalle proiezioni fantastiche che promanano dall’eterna vicenda umana: un processo di accumulazione che si configura fatalmente, irrimediabilmente infinito. Ma molte pagine del romanzo sono tra le più compiute e affascinanti che lo scrittore abbia prodotto, nutrite di stupore e di silenzi fuori dal tempo, e l’obiettivo è una specie di Paese di utopia, di Città dell’uomo dove non c’è posto per l’umanità offesa…