Collasso localizzato: Il mare infetto, la voce dell’horror coreano di Kim Bo-young

Haewon è un piccolo villaggio di pescatori sulla costa sudcoreana, un paesino la cui vita scorre semplice fino a che un terremoto devastante non lo colpisce facendo emergere dall’acqua una formazione non meglio identificata. Il cataclisma risveglia un morbo che trasforma i corpi delle persone, che da umani diventano quelli di esseri simili ai pesci, deformi e accompagnati da un persistente tanfo di pesce marcio. Seo Mu-yeong si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato e rimane confinata nel villaggio posto prontamente in quarantena dalle autorità insieme a sua nipote, che cade vittima della malattia. La donna si impegna come cacciatrice incaricata di riportare gli infetti ai loro luoghi di quarantena fino a che un uomo misterioso viola il cordone di sicurezza intenzionalmente per indagare sulla situazione. Quel che scopre finisce per aprire una dimensione del tutto inedita a un orrore più profondo di quanto si era inizialmente immaginato. Il mare infetto (ADD Editore, pag.144, euro 18), di Kim-Bo young, è un romanzo horror colto e maturo, consapevole dei trope di un genere ampio e stratificato che mescola con acume, conscio di non poter prescindere dalla sua storia internazionale ma di poterla declinare con intelligenza. La partenza è una variante sul tema della classica storia di infetti pseudo-zombie (in realtà sono tutt’altro ma a livello di stilemi diversi elementi sono riconoscibili) per poi virare su una lettura lovecraftiana abbastanza sui generis, ricontestualizzata in un’ambientazione asiatica non inedita ma nemmeno inflazionata.

 

 
Uno degli aspetti più interessanti del romanzo, che qui per certi versi ricorda vagamente La Peste di Albert Camus, è l’esplorazione delle dinamiche sociali e logistiche del villaggio di Haewon e di come esse mutino adattandosi alle conseguenze di un evento catastrofico che rimane comunque localizzato. Non un’apocalisse ma un collasso morbido e in miniatura, con un dentro che comunica con il fuori e il problema della sopravvivenza non diventa fondamentale da un giorno all’altro ma si fa comunque in qualche modo pressante. L’infezione non colpisce solo i singoli ma il tessuto sociale che si sfalda dando spazio agli egoismi, alla violazione di protocolli che per quanto dolorosi servono a tenere insieme le cose e alla resistenza di una forma di patto sociale che in parte si mantiene in piedi da solo e in parte diventa legge e quindi va rispettato. La trasformazione della società indotta dal morbo, soprattutto nella parte finale del libro, rispecchia la trasformazione della stessa al degradare del suo tessuto sociale e culturale, al marcire lento di quella rete immateriale importante per la civiltà non meno delle infrastrutture. La metamorfosi avviene soprattutto lì, nelle pratiche e nel pensiero collettivi in cui la vita, a modo suo, trova comunque una strada per andare avanti. Una strada primitiva, talvolta brutale e via via più aliena alle categorie di chi in una certa situazione non ci si ritrova direttamente e mantiene la prospettiva inevitabilmente fallace del prima, ma comunque una strada, perché tutto cambia ma tutto, inevitabilmente, continua ad andare avanti per quanto ciò possa essere vissuto come un trauma che ci taglia fuori dalla progressione degli eventi.