Storia sociale della bicicletta di Stefano Pivato e la carica rivoluzionaria del pedale

“Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia” parte da questa citazione di Gianni Brera il viaggio di Stefano Pivato (I comunisti mangiano i bambini, Storia dello sport italiano) nell’avventurosa storia della bicicletta. Notato che la bicicletta non risulta possedere “i quarti di nobiltà sufficienti per assurgere a oggetto di studio da parte degli storici” Pivato chiosa che la sua comparsa alla fine dell’Ottocento ha di fatto annunciato la modernità. Leggendo Storia sociale della bicicletta (Il Mulino, pag.251, euro 22) ci si rende conto che pedalare è da sempre percepito come un atto rivoluzionario. Ne è convinto Pivato che ha notato (sul Manifesto):” Da un punto di vista sociale la bicicletta coinvolge tanti aspetti politici, il mondo cattolico, il socialismo di inizio ‘900, le donne vittime di pregiudizi, la Chiesa. In quegli anni, mentre all’estero, in Inghilterra, negli Stati Uniti, le femministe riconoscono che ha fatto molto di più la bicicletta per l’emancipazione della donna che altre battaglie, in Italia le femministe si tengono distanti dalla bicicletta, perché c’è la cappa della cultura cattolica che incombe. Per quanto riguarda la Resistenza, non si sapeva che la bicicletta avesse avuto un ruolo così grande. Il fascismo promuove lo sport femminile e incoraggia le donne ad andare in bicicletta, perché vuole donne forti in grado di generare una prole guerriera, tanto che diventa uno dei motivi di contrasto più evidenti con la Chiesa”. In apertura Primo giorno di scuola a Bonelli nel delta del Po, 1° ottobre 1964. Fotografia di Ezio Quiresi.

 

Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica

 

Si è dovuto attendere la Prima guerra mondiale perché la bici diventasse “uno strumento strategico” e di propaganda (dall’uso per consegnare la posta e muovere le truppe all’eroico bersagliere ciclista Enrico Toti). Prima le posizioni ciclofobe si sprecavano: dall’Osservatore Romano (“Il velocipedismo è una vera anarchia del mondo”) a Lombroso che accusa la bicicletta di avere contribuito al dilagare della delinquenza. Il mezzo era vivamente sconsigliato alle donne (dai medici) perché la posizione delle gambe poteva “occasionare eccitamenti sessuali” ed essere causa di erotomania. Nel biennio  ’43- ’45 la bicicletta divenne l’unico mezzo di trasporto dato che le reti ferroviarie venivano regolarmente bombardate. Contemporaneamente la bici diviene uno strumento fondamentale per le azioni partigiane nei centri urbani, non per nulla dopo l’8 settembre i ciclisti per circolare devono avere un permesso. Ma il rapporto con la bicicletta continua intensuficarsi al punto che Zavattini nota:”Si potrebbe fare un ritratto dell’Emilia parlando della bicicletta, anche se ce ne sono in tutto il mondo, sembra qui la loro sede naturale (….). La bicicletta ha da noi qualcosa del cane…” Il dopoguerra, la ricostruzione, l’imporsi dei campioni (Bartali e Coppi) e di corse come il Tour e il Giro, tutto sembrava spianare la strada alla bici.  Invece grazie al boom economico, affondata dall’imporsi dell’auto, i tempi si fecero grami per la bicicletta. Tutto pareva finito ed invece ecco la crisi petrolifera (Austerity) del ’73 a riportare in sella gli italiani. Pivato chiude il suo saggio occupandosi del movimento critical mass (che nasce in California nel 1992 e arriva in Italia nel 1999), un movimento  che “sfrutta la forza del numero per bloccare il traffico”.  Oggi siamo a un punto di svolta:” al di là di ogni ideologia le due ruote, dopo una parabola durata oltre un secolo e depurata dagli eccessi dello sport agonistico, si pongono al centro di una nuova rivoluzione antropologica, anzi di un nuovo umanesimo che, secondo Marc Augé può far ritrovare all’uomo lo spirito dell’infanzia”.

Guareschi – Candido, 11 aprile 1948