A sexy vibe: è quello che Michael Bay cerca di trarre dalle sue location, per effetto di un lavoro che è contemporaneamente sulla e con la città. Lo abbiamo visto a Taranto, dove la troupe di 6 Underground, quattordicesimo lungometraggio dell’autore americano, si è trattenuta per due settimane di riprese, dal 25 Settembre al 5 Ottobre 2018. La tappa pugliese del film, seconda in Italia dopo Firenze, ha visto la città dei due mari trasformarsi nell’immaginario stato arabo del Turgistan, in cui operano alcuni dei facoltosi “sei sotto copertura”, spacciatisi per morti in nome dell’avventura, e alle prese con il dittatore locale Alimov (tra loro Ryan Reynolds, Adria Arjona e Manuel Garcia-Rulfo). Comparse locali con kefiah e hijab, e camuffamenti del caso ai cartelli delle vie hanno compiuto il piccolo miracolo cinematografico, reso possibile dal particolare mix di ambientazioni che la città è in grado di offrire. Dagli edifici più fatiscenti del borgo antico (e parte di quello nuovo, scelti con millimetrica precisione) fino agli scorci decisamente più suggestivi del Ponte Girevole e del Castello Aragonese (che nel film dovrebbe diventare la base del dittatore), 6 Underground sembra pensato come un classico action-spy alla Mission: Impossible, capace magari di generare una serie di prosecuzioni. Quello che però colpisce è, appunto, quel sexy vibe dichiarato dall’autore, la sua voglia di rendere uno scenario marittimo spesso associato all’attesa e alla precarietà (pensiamo a opere come Il miracolo o il più recente Belli di papà) come un possibile sfondo di sequenze ad alto tasso pirotecnico. E qui inizia lo spettacolo nello spettacolo: Bay è uno dei pochi registi consapevole, mentre filma, del valore iconico della sua messinscena. Si offre alla città con slancio generoso, passeggia per le strade nei momenti di pausa, stravolge la viabilità e cerca di offrire il più possibile “pezzi” di narrazione, attraverso stunt che diventano fenomeno virale per gli spettatori armati di telefonini e videocamere. Auto che volano, esplodono e bruciano, elicotteri a volo radente sul Canale Navigabile, soldati sui gommoni che falciano i nemici nell’acqua, acrobati che si arrampicano sui palazzi e si gettano nel vuoto, fino al momento ormai diventato una di quelle tipiche “storie della città” che si sentiranno raccontare ancora a lungo: il Ponte Girevole si apre, e dai fumogeni di sfondo emerge, zoppicante, Manuel Garcia-Rulfo, che da lì viene poi imbracato per un salto nel Canale.
Non atterrerà in un luogo qualunque, ma sul Kismet, lussuoso panfilo dell’imprenditore pakistano Shaid Khan, noleggiato per la bellezza di un milione di dollari alla settimana, e che, ormeggiato davanti al Castello, diventa un’autentica attrazione cittadina. Colpo geniale per ridisegnare lo scenario di una location che diventa così esotica e attraente, pur se a bordo si consumano sparatorie e va in scena l’immaginario colpo di stato che dovrà spodestare il dittatore. La città reagisce con grande interesse, qualche isolata polemica ingrandita dalle cronache, e si riscopre possibile capitale del cinema d’azione: il Bay-miracolo è compiuto, Taranto è come la Chicago di Transformers 3 o la Miami di Bad Boys. Nel frattempo, le maestranze raccontano con stanchezza e orgoglio le quindici ore di riprese giornaliere, i cambi d’umore del regista che decide di variare luoghi e piani di lavorazione per seguire l’estro del momento e la narrazione più efficace – e un colpo lo dà anche il maltempo, che annulla alcune ulteriori aperture del ponte. Chi assiste dalle balaustre del Lungomare lo trova sempre lì dietro la macchina da presa, padrone del set, che si china a ispezionare i meccanismi d’apertura del ponte, o dietro le spalle di chi spara sui gommoni, cultore del filmare come gesto fisico. La fama di regista “duro” è quindi confermata, ma allo stesso tempo colpisce la sua gentilezza nei confronti dei terzi, e anche le comparse raccontano di un autore maniacale nella precisione, pronto a sgridare chi sgarra, ma nel complesso onesto e appassionato verso il suo lavoro, mai veramente “cattivo”. Chi ha qualche interesse più strettamente “tecnico”, incassa dal canto suo la possibilità di poter assistere alla complessa logistica di un film di così vasta portata, fatto di gru, droni, cineprese su cavo sospese sul Canale, e una fitta rete di comandi via radio che fanno pensare a un piccolo esercito con il suo generale a gestire creativamente un lavoro che è prima di tutto gestione delle risorse e tanta fatica manuale per l’inquadratura giusta.
Di tutto questo resta un girato importante, che si andrà a sommare a quello già portato a casa da Firenze e a quello che arriverà dalle prossime tappe di Roma Cinecittà, Abu Dhabi e Budapest. Unica nube all’orizzonte, il marchio di Netflix, per cui 6 Underground costituisce la maggiore produzione di sempre, con i suoi 150 milioni di dollari di budget. Possibile che anche l’autore di incassi milionari come Armageddon e Transformers si pieghi al colosso dello streaming, sacrificando la visionarietà dei suoi action alla visione sul piccolo schermo? Dalle file dell’aiuto regia qualcuno afferma perentorio che non c’è da aver timore e che il film avrà certamente anche un passaggio in sala. Se sarà anche questa l’ennesima Bay-magia, lo vedremo a giugno 2019, quando è previsto il completamento e la distribuzione del film. Nel frattempo, è stato bello esserci. (Le fotografie sono di Davide Di Giorgio).