Su Sky le vittorie, i conflitti e la valenza simbolica di Una squadra di Domenico Procacci (la docuserie)

Cosa rende un gruppo di talentuosi giocatori di tennis una squadra da battere, temuta a livello internazionale? Perché, prima di attraversare la valenza simbolica politica e culturale, riflesso della condizione di un Paese in cerca di riferimenti forti, in controluce, è questa domanda puramente sportiva a trainare la docuserie Una squadra, diretta da Domenico Procacci. È questo l’aspetto più interessante e autentico dell’idea. Scritta insieme a Lucio Biancatelli, Sandro Veronesi, Giogò Franchini e prodotta per Sky, Una squadra racconta la storia di una squadra di tennis che non ha mai nascosto le proprie contraddizioni, riuscendo a trasformarle in fattori strategici e determinanti per le vittorie: forte con la racchetta in pugno ma frammentata e conflittuale al suo interno, sotto i riflettori per la sua sfacciataggine e caparbietà ma incapace di sostenere la complessità delle relazioni a tutti i livelli da quelli sportivi e mediatici fino a quelli istituzionali. Ma tra il 1976 e il 1980 si trattava della squadra più forte del mondo: Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta, Tonino Zugarelli. In quei cinque anni questi fab four raggiungono la finale di Coppa Davis quattro volte, vincendo solo nel 1976, capitanati dal leggendario Nicola Pietrangeli, contro il Cile. Lo stesso Pietrangeli che verrà licenziato dai suoi giocatori dopo la sconfitta del 1977 in Australia, gesto che ancora oggi considera come il più grande tradimento subito nella sua vita. 

 

 

Vincenti ma divisi, come precisa il primo episodio quando consegna allo spettatore la differenza di sguardo che segnava le due coppie: se da una parte Panatta-Bertolucci appaiono, perché lo erano, più modaioli e spregiudicati (anche nel gioco), dall’altra Barazzutti-Zugarelli mostrano il lato più quieto e responsabile. Due visioni di mondo. Due modi di intendere la vita e il tennis. Per questo la squadra era considerata una mina vagante, addirittura anche all’apice del successo, quando fu osteggiata dal proprio Paese. La squadra è un prodotto che fa leva sulla contaminazione di diversi fattori emotivi, storici, sportivi e politici, come precisa Domenico Procacci: «Studiando quella vicenda ho capito che, per quanto fosse articolata – l’impresa sportiva che porta alla finale, la battaglia politica, gli attacchi ai giocatori, la partenza con la scorta, la finale nel Cile di Pinochet, le magliette rosse, il ritorno con la coppa ma tra l’indifferenza – era solo la parte emersa di un iceberg ben più grande».

 

 

Nei primi due episodi, La battaglia di Nicola e La gente è buona, il tono della narrazione cerca un equilibrio tra la ricostruzione storica e l’aneddotica personale, mescolando con buon ritmo interviste dei protagonisti a immagini di repertorio, filmati d’epoca, ritagli di giornale. Seppur intriso di nostalgia, il risultato è simpatico, scherzoso, leggero, anche quando Procacci si prende un po’ troppo sul serio sforzandosi di indagare un senso più profondo, alla ricerca di un’epica sportiva che forse non c’è o, se c’è, è andata smarrendosi nel tempo, archiviata, impolverata. Un tentativo che in alcuni passaggi gli riesce, ma è merito soprattutto della spontaneità di Panatta che restituisce allo spettatore parte dell’estro che da sempre lo caratterizza, in altri invece scivola nel didascalico e nel grottesco.