Il sogno lungo decenni di un bambino che giocava a “Valérian e Laureline” si è tradotto in cinema, ma il risultato ha scontentato buona parte dei recensori e del pubblico fin dalle preview che ne hanno anticipato l’uscita ufficiale nel settembre 2017. Chissà cosa ne pensa veramente l’autore, Luc Besson, del suo Valérian e la città dei mille pianeti, che in questo principio di 2018 saluta l’edizione in dvd e blu-ray: in lui, che non ama le critiche (e, ça va sans dire, nemmeno i critici), si è manifestata giusto la soddisfazione per aver portato a termine un compito che riteneva quasi istituzionale, ma l’opera non può certo accontentarlo del tutto. Frutto di un’idea romantica coltivata nell’infanzia, il film è infatti quello che Besson ha atteso di realizzare da quando era un ragazzino affascinato dai mondi di celluloide e leggeva con avidità pure le avveniristiche bandes dessinées di Pierre Christin e Jean-Claude Mézières. Ora cheValérian è in home video (dal 4 gennaio), dopo una non esaltante parabola al botteghino, proviamo a valutarne con maggiore distacco pregi e difetti. Ci sono entrambi, e i secondi prevalgono sui primi, ma al film non può essere ascritta la colpa (per alcuni inescusabile) di essere costato quasi 200 milioni di euro: budget che – piaccia o meno – Besson si è guadagnato con una progressiva e irresistibile ascesa nel cinema mainstream, tanto da essere oggi tra i pochissimi europei che possa permettersi produzioni di livello americano.
Della articolata e geniale serie di avventure confezionata sul finire degli Anni Sessanta da una coppia di intellettuali francesi con l’America nel cuore, Besson (che ha sovente collaborato con Mézières, nel corso della sua carriera) ha scelto in particolare le storie raccolte nel volume L’ambassadeur des ombres. Dove si narra, tra le altre, l’avventura fantascientifica che i due superagenti spazio-temporali, il Maggiore Valérian e la Sergente Laureline, vivono nella città intergalattica Alpha, sulla quale giungono per indagare in ordine a una minaccia che mette in pericolo la pacifica convivenza tra le civiltà dell’universo: la metropoli è infatti una sorta di laboratorio in cui il comune obiettivo del progresso universale ha trovato la convergenza di migliaia di razze e culture diverse, ed è quindi patrimonio da preservare. La debolezza principale dell’operazione bessoniana risiede forse proprio nella costruzione dell’intreccio, perché il regista non riesce a dare alla vicenda la compattezza necessaria: si ha l’impressione di un collage di episodi (alcuni peraltro notevoli, come il “ballo amoroso” di Valérian con una creatura multiforme, che nella sua veste migliore ha il corpo, il volto e la voce di Rihanna) che faticano ad amalgamarsi, collegati da passaggi frettolosi o, al contrario, di macchinosa pesantezza. Ed è questa una responsabilità della sceneggiatura, e quindi di Besson medesimo, considerato che l’ha firmata da solo, muovendo dai comix originali. L’altra cosa che non funziona o, che, perlomeno non rappresenta il valore aggiunto che poteva essere, è il cast: tra i protagonisti, Dane DeHaan manca di carisma e fisicità, mentre Cara Delevingne (che pure sembra crederci di più) è troppo algida per emozionare; tra i comprimari, invece, gente del calibro di Clive Owen, Mathieu Kassovitz, Etan Hawke, Rutger Hauer, Herbie Hanckock (!), si presta a interpretazioni in buona parte caricaturali, senza accendere più di tanto la fantasia. Le imputazioni a carico di Besson finiscono qui, perché gli altri elementi che zavorrano il film non sono responsabilità diretta dell’artista parigino. Vero che egli mostra rigidità quando si tratta di passare dalle strisce al cinema, ma pare più eccesso d’amore che ottusità: cerca infatti di trasmettere la freschezza innovativa del fumetto com’era all’epoca della sua uscita senza modificare alcunché dell’estetica e dei dialoghi cristallizzati nel suo ricordo; e volendo riprodurre entrambi, paga dazio all’età dell’opera, che riletta ora dimostra (e non potrebbe essere altrimenti) tutti i suoi cinquant’anni.Era talmente avanti sui tempi, la saga di Christin e Mézières, che influenzò molto cinema di fantascienza degli Anni Settanta, Ottanta e Novanta, da Star Wars a Dune, fino a Il quinto elemento, immaginifica immersione nel genere (l’ultima fino a Valérian) che Besson realizzò nel 1997. Ecco, proprio il film interpretato da Bruce Willis, Gary Oldman e Milla Jovivich è pietra di paragone per la nuova creatura, perché esso aveva il proprio punto di forza nell’abito, una lussureggiante scenografia capace di accarezzare l’occhio, come poche volte con effetti visivi inediti, che traevano origine proprio dai fumetti di Valérian e Laureline. Non scaldava più di tanto il cuore, ed era opera sbilanciata, ma si fece apprezzare. Qui l’innovazione non c’è, dopo anni di più o meno affettuosi saccheggi a partire dalla stessa materia, ormai abusata. E arrivando meno effervescente (se non proprio scarica) sul piano della forma, la sfida di Besson mostra fiato corto, perché l’intreccio (che non è mai stato la freccia migliore nella faretra del regista) non è tale da fare la differenza. Non è un film brutto, Valérian e la città dei mille pianeti; ma il gusto non è persistente, e non lascia tracce di sè che valgano, oltre il prezzo del biglietto, anche il ricordo.