Aspettando Godot ai tempi di Locke(down) di e con Filippo Dini

C’è esplicitamente qualcosa di Beckett (su tutto Godot) e implicitamente qualcosa di Buñuel (nell’atto continuamente mancato e nel clima di frustrazione penetrante), molto comunque di noi, ai tempi del confinamento in questo Locke, diretto e interpretato da Filippo Dini. Si potrebbe dire, che al centro, volenti o nolenti c’è il tema della paralisi e lo spettro del Lock(e)down.
Nel ri-vedere il personaggio di Ivan Locke, immortalato dalla pellicola di qualche anno fa di Steven Knight con Tom Hardy, incastrato nel suo percorso senza ritorno, alle prese con la sua colata di calcestruzzo e calata negli abissi dell’anima, viene alla mente un racconto di Dürenmatt, Il tunnel, con un filo maggiore di luce, però, nel fondo. Ora, fermo on the road sul palcoscenico, su un sedile stilizzato e scheletrico, auto-immobile, sedia di tortura e sedia elettrica, c’è Filippo Dini a impersonare questo uomo qualunque che vuol fare la differenza con la sua scelta, un po’ cavaliere e un po’ filosofo (nel suo operare un atto eroico e di verità), edificatore e fedifrago (capace di costruzioni enormi, a capo di un cantiere da record, e di distruggere tutto nella solitudine alcolica di una notte), ossessionato dal fantasma paterno, da cui vuole affrancarsi ma che non riesce a scansare, in un viaggio dentro e fuori di sé (le luci sul suo volto come un’odissea nello spazio dell’anima), per fare la cosa giusta senza perdere tutto, in fuga e ritorno nello stesso tempo.

 

 

Al telefono senza soluzione di continuità, l’uomo è separato e insieme ai personaggi chiave e alle comparse di questo viaggio al termine della notte. Dini è bravissimo a interagire con voci registrate che sembrano in presa diretta (giusto nominare gli undici attori che danno il loro contributo: Sara Bertelà, Eva Cambiale, Alberto Astorri, Emilia Piz, Iacopo Ferro, Mattia Fabris, Mariangela Granelli, Valentina Cenni, Carlo Orlando, Giampiero Rappa, Fabrizio Coniglio), dando ritmo e credibilità ai dialoghi, modulando i registri cangianti di un testo serrato e senza tregua, che trova nell’uso espressionistico delle luci sul volto dell’attore (responsabile dell’illuminazione è Pasquale Mari) il senso del moto senza posa e la psichedelia della perdizione, l’abbaglio dell’illuminazione, l’intermittenza delle svolte, il precipitare nell’oscurità del protagonista. Così lo spettatore, ligiamente mascherato, si specchia pienamente in questa luminescenza notturna e cinematografica e, nell’anonimato della sala, accorgendosi del plexiglas che lo protegge dal contagio della prossimità, si sente un po’ anche lui chiuso dentro un abitacolo, isolato nel corpo e nell’anima, portato a identificarsi negli snodi etici e nei dilemmi esistenziali di quel povero Cristo inchiodato sul proscenio (la dimensione teologica del testo, nonostante la sua carica nichilistica, è molto forte), che compie – così vicino, così lontano – la sua personale/universale via crucis. E se il finale contiene l’eco speranzoso di un vagito, Locke non è mai uno spettacolo conciliante o consolatorio, e la destinazione di quel viaggio, il suo senso e la sua riuscita, la sua soluzione ci lascia in sospeso, ancora nell’abitacolo dell’auto, in itinere, soli con noi stessi e disorientati. In viaggio.

 

Milano     Teatro Franco Parenti (sala AcomeA),    fino al 29 ottobre